A questo punto il fascicolo, che i giudici si passano da quasi duecento anni, potrebbe essere dichiarato monumento nazionale. È un processo, ma funziona come una giostra che gira intorno ad un quesito: è valido l’atto di vendita stipulato il 15 giugno 1816 davanti al notaio Gioacchino Accardi? Finisce un grado di giudizio, ne comincia un altro e poi un altro ancora. Su e giù per le scale della giustizia. Un comune, quello di San Giovanni Gemini, combatte contro una sfilza di privati, quelli che in quasi due secoli hanno messo le mani sui terreni - demaniali oppure no? - oggetto della disputa più lunga della storia giudiziaria italiana.
L’ennesima tappa di questa saga, ambientata in un angolo dell’Agrigentino, si celebra davanti ad una figura che già nel nome sprofonda nelle pagine dei libri di storia: il commissario per la liquidazione degli usi civici, un personaggio che sopravvive - purtroppo - in tutta Italia. È lui, adesso, a dover dare la risposta all’eterno quesito: il notaio Accardi fece tutto a regola d’arte? Il sospetto è che il perito incaricato di valutare quelle terre - circa trecentomila metri quadri divisi in numerosi appezzamenti - le abbia sottovalutate per favorire il compratore, Giuseppe Romeo, chiaramente una testa di legno che agiva per conto dei Mendola, potente famiglia della zona.
Il peccato originale è tutto qua: come mai quelle terre furono stimate dall’agrimensore Antonio Barno solo 2030 once? Poco, troppo poco. All’epoca i due comuni interessati - San Giovanni Gemini e Cammarata che poi si è sfilata esausta - approvarono, ma qualche tempo dopo ricevettero un’offerta assai più alta. E aprirono gli occhi. Accardi, Barno e Romeo li avevano fregati.
Il processo si impianta su quel dubbio maligno. Il congresso di Vienna è appena finito, la tempesta napoleonica, riassorbita almeno all’apparenza, i Borbone hanno steso un tappeto sulla Rivoluzione. Il primo giudice è Matteo Longo della Gran corte civile, una dizione altisonante e sbuffante che ci apre mondi fantastici. Ma la realtà è più modesta: che fa Longo?
Semplice, ordina una seconda perizia, affidata a Domenico Casaceli. E Casaceli contraddice Barno: il prezzo giusto è 3115 once, ben più delle 2030 indicate dal primo esperto. A questo punto è Romeo a protestare. La Gran corte civile, al cui confronto Salomone era un dilettante, ordina la perizia numero tre: lo specialista di turno è Antonio Miccichè. Ma a questo punto ecco il colpo di scena: la Gran corte civile viene abolita - visto l’andazzo, la sforbiciata non sembra così negativa - e la causa arriva al Consiglio d’Intendenza di Agrigento. La giustizia borbonica, insomma, non fa una gran figura: è un susseguirsi di tornanti che non portano da nessuna parte.
Il 22 giugno 1835, come dire 173 anni fa, il Principe di Campofranco, Luogotenente del Regno, perde la pazienza: il processo va per le lunghe, è uno scandalo, deve finire. Dunque, scrive al Procuratore generale della Gran corte dei conti di Palermo una lettera dai toni assai preoccupati: «Resto inteso con approvazione delle misure da lei adottate, onde non reiterarsi gli inconvenienti esposti nei succennati di lei rapporti del sommo ritardo frapposto nel disbrigo della causa suindicata».
Domanda scontata: se il ritardo era sommo nel 1835 oggi il compianto Luogotenente con quale aggettivo dovrebbe aprire il fuoco? L’avvocato Salvatore Mangiapane, bandiera storica del Comune di San Giovanni Gemini, la spiega col fatalismo del tecnico: «Quando si parla della demanialità non c’è prescrizione che tenga. E così l’atto di vendita davanti al notaio Accardi è stato esaminato e riesaminato da decine di giudici».
Cinque, sei, sette generazioni si sono affacciate alle aule di giustizia: Romeo e i Mendola e poi i Viola, i Guarino, i Caracciolo. La contesa prosegue e si frantuma in tanti microconflitti: una famiglia contro l’altra, il Comune contro questi e quelli, tutti contro tutti. Il filone principale e poi filoni laterali, secondari e via creando in un’esplosione di forme che ricorda il barocco siciliano. La giostra che gira e rigira. I Borbone se ne vanno, scendono i Mille; poi il Fascismo, modernizzatore, introduce il commissario per la liquidazione degli usi civici, una sorta di singolare anfibio, per metà funzionario e per il resto giudice, con un compito disperato: cancellare gli ultimi retaggi del feudalesimo. Appunto quegli usi tramandati nei secoli: fra quelle montagne, la possibilità per la povera gente di mettere il grano ad asciugare nelle terre demaniali e ancora la libertà di scavare grandi buche coniche, le nivere, dove raccogliere la neve da utilizzare d’estate per i gelati.
Risultato, all’italiana: i cascami del feudalesimo non ci sono più, il commissario invece vive. E si ritrova in mano, dopo l’ennesimo tornante, il rompicapo. Nel 1989 finalmente dà ragione al Comune: ma sì, quei terreni sono demaniali, l’atto di vendita è nullo. Del resto l’avvocato Mangiapane è tranchant su un punto fondamentale: «All’epoca non fu pagata nemmeno un’oncia». Nel Duemila la Cassazione conferma. Partita finita? No. Come spiega Mangiapane, ormai trasfigurato in cantastorie, qualcosa non quadra: «Per ragioni a me ignote la sentenza parla di alcune famiglie che si sono installate in quelle terre, ma ne dimentica altre». Nuovo giro, la causa è riapprodata davanti al commissario “anfibio” che dovrebbe liquidare ma non liquida mai l’eredità che gli viene dalla storia. «La sentenza - e il legale s’infervora come se si trattasse di un processo sprint - è attesa a giorni, forse già domani o dopodomani». Incredibile, misurare 24-48 ore in una storia che celebra il suo terzo secolo. Ma poi l’avvocato frena, spegne l’adrenalina e torna a frequentare l’eternità: «Ci potrebbe essere l’appello, poi la Cassazione e poi chissà».
Intanto, ciascuno ha fatto quel che ha potuto sul tronco della causa. Gli uni hanno venduto agli altri, alcun cognomi sono stati ingoiati dal tempo, altri sono entrati in scena. Sono sorte delle case, il Comune ha espropriato un’area e ha realizzato un parco. Tutto sulle sabbie mobili di quell’atto notarile.
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