da Roma
Ha fatto passare ventriquattr’ore filate, ha lasciato che le pagine dei giornali si riempissero di retroscena sulle parole che gli erano state attribuite («È finita, il mio governo sta per cadere per corruzione politica», perché Berlusconi si è comprato «sette senatori»). E solo ieri Prodi ha smentito: «È tutto inventato, non capisco come sia potuto venir fuori questo», ha assicurato ieri. E il suo governo «non traballa» affatto.
Sa benissimo, il premier, che una smentita data due giorni dopo serve a poco: dunque, ragionano nell’Unione, voleva che il messaggio uscisse. «Sta giocando d’anticipo - spiega ad esempio il verde Paolo Cento - e si è convinto che l’assalto per farlo cadere non verrà mai dalla sinistra, ma dal centro. Dunque ha cominciato a indicare i traditori, sapendo che la partita è ancora aperta e che in molti temono le elezioni». Perché l’oceanica manifestazione di ieri non è affatto «un segnale di ostilità a Prodi, ma un sostegno alla sua alleanza con la sinistra: piuttosto serve a rendere meno trionfale la marcia egemonica del Partito democratico».
Dopo la riuscita prova di forza di Piazza San Giovanni, il processo di unità a sinistra si accelera, per Mussi e i verdi è più difficile continuare a resistere, e l’ala radical si presenta come l’alleato più leale che «stimola» il premier ad andare avanti con il suo programma e con la coalizione di cui è l’unico possibile garante. «Ho sempre ascoltato questo popolo», manda a dire lui alla piazza. Mentre al centro gli scricchiolii si moltiplicano: Mastella denuncia la «caccia a Prodi» e assicura che lui non voterà nessun governo tecnico: «Si va ad elezioni». Di Pietro teme che il «caso Mastella» possa «portare il governo al capolinea». Il presidente del Senato assicura di «non vedere elezioni nell’aria» ma in privato si dice molto «preoccupato» per una situazione che (soprattutto a Palazzo Madama) ogni giorno si fa «più complicata».
Il gioco di sponda tra Palazzo Chigi e la sinistra ributta la palla nel campo del Pd. E di quel Veltroni che, secondo le indiscrezioni, Prodi avrebbe definito «più cinico» persino di D’Alema, il «congiurato» che lo fece cadere nel ’98. Che vuole fare Veltroni? Un ds a lui vicino, come Peppino Caldarola, è convinto che Prodi sia intenzionato a «resistere a ogni costo, in un’ottica da “muoia Sansone con tutti i filistei”». E che «Walter può decidere se restar lì a difendere il fortino di un governo sempre più logorato, oppure correre il rischio di andare al voto». Rischio alto, certo, perché potrebbe portare alla sconfitta che Prodi preconizza. «Ma a un leader che ha appena ricevuto un’investitura così forte non conviene restar fermo a farsi sfibrare», osserva Caldarola. E lo «sfibramento» non arriva solo da Palazzo Chigi, ma anche dall’interno del Pd: da quei pezzi del «vecchio partito» che hanno bisogno di tempo per recuperare terreno e imporre al neo-segretario il proprio peso contrattuale, impedendogli di riempire il Pd di «sangue nuovo» come ha promesso. La vecchia nomenklatura Ds e Margherita spinge per dare il via al tesseramento, per ricostituire gli apparati regionali, per ricostruire quelle filiere interne che contano nei momenti delle scelte. Per questo Caldarola è convinto che «a Walter convenga andare a elezioni, anche con questa legge elettorale che consentirà a lui di scegliere i parlamentari e dunque la classe dirigente del futuro; e di liberarsi dell’impossibile alleanza con il Prc. Potrebbe persino vincere».
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