Romano Prodi lo svenditore ambulante. Non passerà alla storia per il governo più coeso, per la popolarità più elevata, per le riforme più azzeccate. No: il Professore sarà ricordato per aver privatizzato, e spesso regalato, il meglio delle aziende statali. Ha cominciato da presidente dell’Iri, primo mandato dal 1982 al 1989; ha continuato con il secondo incarico nel 1993-94; ha proseguito nei primi due anni a Palazzo Chigi.
Ora con Alitalia si appresta a completare l’opera. Dall’Alfa Romeo all’Italgel, dalla Sme alle banche di interesse nazionale, dalla siderurgia all’industria petrolifera, dall’Ina fino alla complessa partita telefonica (Italtel-Stet-Telecom) e ora alla compagnia di bandiera, non c’è settore strategico dell’economia nazionale risparmiato dalle vendite prodiane. I suoi nove anni complessivi alla guida delle partecipazioni statali sono legati a un’unica parola d'ordine: privatizzare. Fare cassa, sfoltire il carrozzone dell’industria di Stato. Lui ha definito la sua permanenza all’Iri «un Vietnam personale» eamaricordare che mise piede in via Veneto un 3 novembre, «quel breve lasso di tempo che separa il giorno dei morti dal giorno della vittoria». Che per le casse dello Stato non è mai arrivata. Nell’incertezza delle regole, pressato da politici e industriali amici, Prodi ha privatizzato a vista.
A volte ha deciso lui, altre volte ha subìto l’iniziativa altrui; ha applicato metodi diversi, dalle trattative private alle aste pubbliche ai mandati esplorativi affidati agli advisor; ha perseguito obiettivi variabili a seconda delle circostanze. Ma tra le «diverse ragioni empiriche» che lo spingevano a privatizzare non era mai previsto il massimo vantaggio economico per le casse dell’istituto che presiedeva. Nel 1985 l’attuale premier era pronto a cedere per una cifra irrisoria la Sme a Carlo De Benedetti, editore di Repubblica e sponsor di De Mita: fu fermato da Bettino Craxi con il seguito giudiziario a carico di Silvio Berlusconi, Cesare Previti e magistrati vari che ancora si trascina. Nel ’93, quando la vendita gli riuscì, fece di tutto per assegnare la Sme a un finanziere venuto dal nulla ma protetto dalla Dc campana, Carlo Saverio Lamiranda, che si rivelò un prestanome usato per instradare la Cirio-Bertolli- De Rica verso i veri destinatari, Sergio Cragnotti e la Unilever, della quale Prodi era stato consulente fino a pochi mesi prima.
L’Alfa Romeo fu regalata alla Fiat, sacrificando l’accordo già firmato con la Ford (che offriva tre volte più della famiglia Agnelli) sull’altare della campagna nazionalistica per la quale «il Biscione deve restare italiano». E fu Prodi, come presidente Iri, a preparare il piano di riassetto delle telecomunicazioni che attraverso una serie di fusioni (Sip, Iritel, Italcable, Telespazio e Sirm) portò alla vendita di Telecom decisa dallo stesso Prodi, stavolta a Palazzo Chigi. Il bilancio del «privatizzatore per eccellenza» (così Prodi definì se stesso alla fine del 1996, quando fu raggiunto dall’inchiesta sulla cessione Sme) è in rosso. Non ha portato a termine il risanamento della siderurgia; nella cessione di Credito italiano e Banca commerciale ha perso il premio di maggioranza; il riassetto contabile più volte sbandierato era soltanto apparente, tanto che Enrico Cuccia lo freddò: «Nel 1988 Prodi ha solo imputato a riserve le perdite sulla siderurgia, perdendo come negli anni precedenti».
Bruno Visentini lo fece a pezzi: «Il professor Prodi dimentica le norme di legge e statutarie», avendo proceduto «in modo alquanto giocherellone». Di sicuro non si sono lamentati i suoi amici.
I vertici di Nomisma e del Mulino sono stati traghettati prima all’Iri poi al governo; la multinazionale Unilever, di cui il Professore era stato advisor director, ebbe (tramite Fisvi) l’olio Bertolli; la banca d’affari americana Goldman Sachs (altra consulenza del Professore) sostituì la Merrill Lynch scelta da Nobili per collocare le azioni Credit.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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