Roma - Il Partito democratico avrà (pare, forse) un segretario. Probabilmente ad ottobre, su indicazione di Prodi e con ratifica da parte dell’Assemblea costituente del Pd. E per raggiungere a tarda sera questa sorta di claudicante compromesso, Prodi e i capi dell’Ulivo hanno passato circa quarantotto ore a litigare, mediare, minacciare crisi di governo e abbandoni del campo. Il topolino è stato partorito dopo quattro ore di convulsa riunione (la prima) del comitato dei 45, allo stato l’unico organismo del Pd. Presenti Prodi, Fassino, Rutelli, Veltroni, ministri e capigruppo ulivisti e la piccola truppa di gastronomi e focolarine chiamata a rappresentare la «società civile» nel comitato, che seguivano ad occhi sgranati la surreale diatriba in corso. Rutelli chiedeva l’elezione diretta di un «leader vero», che separasse nettamente le sorti del governo e il ruolo del premier dalla conduzione politica del Partito democratico. Prodi non ne voleva sentir parlare, e minacciava: «Se volete un voto diretto, mi candido anch’io». Fassino tentava di mediare. A metà pomeriggio in casa ds c’era il panico: «Qui rischia di saltare tutto», il Pd ma anche il governo.
L’intervista di Romano Prodi a Repubblica ha irritato tutti, nella coalizione, per i toni ultimativi e minacciosi del premier: «Adesso basta. D’ora in poi cambia la musica. O si fa come dico io, o prendere o lasciare». Il segretario della Quercia Piero Fassino aveva ottenuto da Prodi l’apertura (contenuta nell’intervista) alla nomina di uno «speaker» del Partito democratico, a patto che non metta in ombra la sua leadership. Ma neppure Fassino si aspettava un’intervista di quel tenore: «Così si rischia di far precipitare la situazione», si è lamentato con i suoi. Ma il premier non ha certo abbassato i toni, convinto che battere i pugni sul tavolo accusando i partiti di rovinare il lavoro del governo sia l’unico modo per uscire dall’angolo: «Quell’intervista non era fatta per rasserenare gli animi, ma per dire quello che penso», ha spiegato.
Nella riunione del Comitato promotore del Pd si rischiava lo scontro frontale, tanto che Fassino ha cercato di convincere il premier a far saltare il vertice, ritardando il rientro da Varsavia. Senza riuscirci: «Io ci vado regolarmente, all’ora prevista», gli ha replicato Prodi via agenzie.
Dopo aver consultato il luogotenente prodiano a Roma, il ministro Santagata, Fassino ha sottoposto a Rutelli l’unica mediazione che aveva un mezzo assenso di Prodi: la nomina di un «portavoce» del Pd. Il leader della Margherita l’ha seccamente respinta. «Una proposta ridicola, a che serve?», l’ha liquidata con i suoi. Spalleggiato in questo dal resto del partito, da Franco Marini a Dario Franceschini, il capogruppo dei deputati dell'Ulivo cui i Ds hanno offerto la candidatura. «Ci vuole un leader vero, non un portavoce o portapalle: non può essere la stessa persona a guidare il governo e il partito, questo deve essere chiaro», è stato il ragionamento di Franceschini. Davanti al niet della Margherita, i Ds hanno convocato d’urgenza il loro ufficio politico, assenti D’Alema e Veltroni. «Rutelli vuol far saltare il banco, governo e Pd compresi», era il loro grido d’allarme.
Dentro la riunione, raccontano, si respirava però un’atmosfera di impotenza: sfoghi e lamenti di ogni genere contro Prodi e un governo che «non funziona e ci porta alla sconfitta», per poi concludere che «non possiamo fare altro che tenere su lui, se no salta tutto». E una lunga discussione sul caso Visco, la «vera bomba atomica», come dice il ds Cuperlo, che rischia di esplodere al Senato su governo e partito: che fare? Non si sa, neppure in quel caso: l’unica via d'uscita è che il viceministro si sfili da solo, rimettendo le deleghe. Ma per la Quercia sarebbe un nuovo schiaffo. Il summit ha partorito il suo topolino: tornare dalla Margherita proponendo di nominare un «segretario a pieno titolo» del Pd, e non più un semplice speaker.
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