Prodi scommette su Bertinotti ma ha già perso

Francesco Damato

Quando ho visto Romano Prodi in televisione ascoltare con aria soddisfatta e compiaciuta il discorso d’insediamento di Fausto Bertinotti alla presidenza della Camera, da lui fortemente sostenuto, anche a costo di frustrare le ambizioni formalmente espresse dal principale partito della sua coalizione di governo, mi sono chiesto se ci fosse o ci facesse.
Del resto, anche un convinto e sanguigno elettore dell’Unione come Giampaolo Pansa ha manifestato sull’Espresso delusione e preoccupazione per lo spazio politico concesso a quello che lui chiama dai tempi dell’affondamento del primo governo Prodi, nell’autunno del 1998, il «parolaio rosso». Del quale, anche dopo la presunta svolta moderata attribuita al partito della Rifondazione comunista per l’adesione alle generiche 280 pagine e rotte del programma della nuova coalizione prodiana, egli ha continuato a scrivere come di «un logorroico imbattibile, un vanitoso, un egocentrico, un superficiale incompetente», o di un uomo che «non esiterà a truccare le carte». Bertinotti rimane per Pansa lo scorpione che, aggrappatosi alla rana per attraversare il fiume, non resiste alla tentazione di pungerla, a costo di condividerne la morte per annegamento.
Per capire i rischi che corre scommettendo sulla moderazione bertinottiana a Prodi basterebbe fermare lo sguardo alla situazione politica e sociale scelta per la sua residenza anagrafica, cioè Bologna. Il cui sindaco non è un uomo di destra, o un uomo di sinistra moderata e pragmatica adottato dalla destra, come accadde nella passata amministrazione comunale di Guazzaloca. Ad amministrare Bologna è Sergio Cofferati, distintosi come segretario generale della Cgil nella scorsa legislatura per avere sommerso di scioperi e di manifestazioni di piazza il governo di Silvio Berlusconi, indicato come un odioso nemico per il tentativo di allentare le maglie del famoso articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, che rende praticamente indissolubile, quasi come un matrimonio religioso, il rapporto tra imprenditore e dipendente. Ebbene, messo alla prova di un governo sia pure locale, con chi ha dovuto e deve tuttora scontrarsi Cofferati sul terreno non certo secondario della legalità e dell’ordine? Con il partito di Bertinotti: lo stesso che d’altronde riuscì a scavalcare Cofferati nella difesa dell’articolo 18 chiedendone con un referendum l’estensione anche alle piccole, anzi piccolissime aziende che ne sono escluse, e che sarebbero condannate a chiudere se fossero costrette alle stesse regole delle grandi in materia di licenziamenti.
Solo la dabbenaggine politica di Prodi, e di quanti gli hanno tenuto e gli tengono bordone tra i presunti riformisti dell’ex Pci, fra i quali Massimo D’Alema, poteva risolvere la concorrenza politica e sociale tra Cofferati e Bertinotti confinando il primo a sindaco di Bologna ed elevando il secondo alla presidenza della Camera, a suggello del carattere determinante della partecipazione del suo partito alla nuova maggioranza uscita dalle urne e al governo atteso dopo lo scioglimento del nodo del Quirinale.

Che si è peraltro aggrovigliato con la rinuncia di Carlo Azeglio Ciampi alla rielezione proposta dal centrodestra e con il tentativo della sinistra di sostituirlo addirittura con l’ingombrante presidente dei Ds, magari ricorrendo anche a manovre oblique.

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