Dal gioco della scissione al gioco dell'unità. Dal gioco della propria lista al gioco del rientro nella Margherita. Dal gioco del simbolo elettorale unico al gioco del ciascuno con il proprio, ma dando la precedenza al gioco delle primarie. Le contorsioni di Romano Prodi riservano ogni giorno una sorpresa. A voler usare il linguaggio della sinistra, c'è da chiedersi cosa c'entri questa sequenza di piccole mosse con i grandi problemi del Paese. Nell'interminabile partita fra le forze dell'opposizione non c'è un cenno al programma, alle scelte da compiere, all'idea di come governare l'Italia. Domina su tutto la pretesa di una leadership debole e contestata di apparire, invece, forte ed incontrastata. Si tratta di un copione già recitato nel 1998 e, nello stesso tempo, dell'anticipazione di quello che accadrebbe se l'Unione - si chiama ancora così - dovesse vincere le elezioni del prossimo anno. Cioè una crisi infinita.
Ciò che è accaduto nelle ultime ore si chiama tregua o, se si preferisce, frenata: frena Prodi, rinunciando a lasciare il suo partito, dopo l'offensiva condotta da Arturo Parisi, e mostrando così di non credere neppure lui al sondaggio che lo colloca al 18 per cento. Frenano Fassino e D'Alema, ammorbidendo la loro diffidenza verso le primarie che lascerebbero in ombra i Ds. Frena Rutelli, disposto a scendere a patti con colui che ambisce a svuotargli la rappresentanza parlamentare e a metterlo in un angolo. Vedremo cosa accadrà nelle prossime ore, da qui al vertice di lunedì prossimo, vedremo chi per primo tornerà a calcare il piede sull'acceleratore e con quali conseguenze.
Di certo c'è che al momento la questione della leadership resta aperta. Non c'è nella storia politica italiana un precedente simile. La guida di una coalizione si è sempre definita attraverso la forza e l'appeal di una personalità e la capacità di attrazione di una proposta programmatica. È la prima volta che si decide un candidato per Palazzo Chigi con giochi e giochetti di questo livello e prima ancora di aver trovato una comune piattaforma. Certo, si può concludere che è l'effetto di questo bipolarismo. Ma è un giudizio riduttivo. In questo caso c'è l'esplosione di una miscela composta da rivalità personali e da divergenze profonde su tutte le possibili scelte di governo. E c'è soprattutto un Romano Prodi che, dopo essere stato accolto come il «salvatore della patria», resta un'anatra zoppa, la cui forza consiste solo nell'impossibilità dei Ds di presentare un proprio candidato e nel potere di ricatto, che cerca di esercitare, per inventare a tavolino un gruppo parlamentare di fedelissimi.
Non ha altro Romano Prodi. Non ha un programma, anzi quando lo ha lanciato con il proclama scritto a Creta, la proposta è stata subito rispedita al mittente. Non ha una sua base, al punto da dover chiedere il sostegno della Quercia, come ha fatto ieri. Non ha un credito durevole presso i suoi alleati. Basti ricordare che era stato incoronato dopo le elezioni regionali e che ora è costretto a zigzagare ogni giorno alla ricerca dello scettro. Ora ha riproposto le primarie, contando su una facile corsa e su una competizione con il solo Bertinotti, sempre pronto a cercare di piegare dalla sua parte l'asse dell'alleanza. Ma se alla fine ci si arriverà, queste primarie saranno ben diverse da quelle prospettate nei mesi scorsi. Saranno rose dal tarlo della credibilità. Troppo forte è stata la frattura di queste settimane per pensare che Prodi possa essere il candidato dei moderati contro il candidato degli antagonisti.
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