Laura Cesaretti
da Roma
Raccontano che quando il candidato premier dellUnione Romano Prodi ha parlato di «minacce» e «lusinghe» usate dal centrodestra per spingere il capo dello Stato a firmare la legge elettorale, che oggi il Senato licenzierà, il capogruppo ds Angius, che lo affiancava durante la conferenza stampa indetta dallopposizione per denunciare le brutture del nuovo sistema elettorale elaborato dagli strateghi della Cdl, si sia irrigidito sulla sedia. «Cinque anni fa - ha esordito Prodi - il centrodestra, che allora era opposizione, gridò con tutta la sua forza che mai e poi mai avrebbe accettato una riforma elettorale imposta dalla maggioranza di allora. E che mai e poi mai il presidente della Repubblica avrebbe potuto promulgarla». Oggi però quelle stesse forze politiche «sembrano pretendere, con minacce neppure molto velate che talvolta si alternano a lusinghe neppure troppo eleganti, che il presidente assicuri senza indugio la promulgazione di una legge di comodo, adottata dalla sola maggioranza nel suo evidente e miope interesse di bottega».
Una promulgazione che Ciampi, sembra pensare il capo dellUnione, non dovrebbe concedere con la sua firma, perché la nuova legge elettorale è «incostituzionale», e anche «antipatriottica», ha aggiunto toccando un punto caro al capo dello Stato. Anticostituzionale «come hanno dichiarato 100 costituzionalisti del nostro Paese, rappresentativi delle più diverse scuole giuridiche». Incostituzionale perché «introduce una molteplicità di premi di maggioranza che avranno l'effetto di distorcere il risultato del voto senza assicurare governabilità». Incostituzionale, incalza Prodi, perché «individua in modo del tutto irrazionale soglie di sbarramento diverse da regione a regione e da Camera e Senato».
Incostituzionale perché senza quote rosa «non promuove le pari opportunità sancite dalla Carta», e infine perché «non garantisce in alcun modo che i premi di maggioranza, che costituiscono comunque una distorsione del voto popolare, impediscano agli eletti e ai partiti di una stessa coalizione di dividersi in Parlamento subito dopo aver ottenuto i seggi ad essi assegnati». E questo concetto forse sintetizza quello che per il candidato del centrosinistra è lo spauracchio principale: il rischio, anche se vincesse le elezioni come pronosticano i sondaggi, di perdere pezzi di maggioranza di lì a poco, di restare comunque ostaggio di umori e ondeggiamenti di ogni singolo partito della sua coalizione.
Ha sparato a zero, Prodi. E i dirigenti del centrosinistra sono stati presi di sorpresa dalle sue parole. «È venuto lì, ha letto un testo scritto, non eravamo stati preavvertiti sui contenuti, li avrà discussi col suo staff ma non certo con noi», dicono dai partiti del centrosinistra. E per diverse ore - mentre su Prodi si scatenava una bufera di polemiche da parte della maggioranza, con Bondi che chiedeva un «giurì donore sulle sue gravissime dichiarazioni», Giovanardi che gli dava dell«incendiario» privo di «equilibrio», Schifani che lo accusava di aver «perso la testa», Ronchi (An) che notava nelle dichiarazioni di Prodi «una pochezza culturale infinita» e Cesa che gli chiedeva di «vergognarsi» - a difendere il candidato premier sono stati solo i fedelissimi, dalla Magistrelli a Monaco.
Nel Palazzo, gli uomini del centrosinistra cadevano dalle nuvole: «Ha veramente detto questo, Prodi? Ma se si era decisa la linea della cautela!», si stupiva il ds Ventura. «Tirare Ciampi per la giacca è sempre sbagliato, e in questo caso anche controproducente», diceva Russo Spena di Rifondazione. «Il problema è che Prodi vive isolato tra i suoi consiglieri che lo spingono in queste direzioni. E poi a noi tocca difenderlo, non possiamo mica smentirlo...», sospirava un dirigente della Margherita. Il Professore nel frattempo cercava di smorzare la portata delle critiche a Ciampi («non lo tiriamo in ballo, abbiamo soltanto espresso il nostro parere sulla legge elettorale. Nessun appello al presidente della Repubblica per il grande rispetto che nutriamo verso il suo ruolo»).
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