Li aspettavano e sono arrivati. Al nono giorno di protesta sangue e morte fanno irruzione tra le pagode di Yangon, riempiono le strade, costringono alla fuga monaci e studenti. Il terrore è sceso in strada e nessuno sa quando l’abbandonerà. Nessuno sa di preciso quante siano le vittime. Si parla di otto morti, tra cui un monaco di 90 anni, e di 150 feriti. Di certo da ieri mattina a Yangon si spara e si muore. Di certo le segrete del regime hanno ripreso a riempirsi. Trecento monaci sono stati bastonati, inseguiti, buttati nei camion, trascinati in carcere. E dietro il sipario di quelle galere si sono concluse le rappresentazioni di Zarganar, il commediante che da settimane bersaglia con frecciate e punzecchiature la dittatura. Lo hanno arrestato nella notte, ridotto al silenzio nel buio di una cella.
Assieme a loro c’è, si sussurra, anche l’indiscussa eroina, l’irriducibile Aung San Suu Kyi. La «pasionaria» dell’irraggiungibile democrazia birmana, costretta da anni agli arresti domiciliari sarebbe da giorni nel penitenziario di Insein. Così, almeno, racconta da Parigi Sein Win, rappresentante di quel governo in esilio formato dai parlamentari eletti nel 1990 e sopravvissuti alle esecuzioni sommarie e alle torture, al carcere e al tempo.
La tragedia del nono giorno inizia a metà mattina quando una folla di monaci, studenti e militanti del movimento di Aung San Suu Kyi, dà il via all’ormai rituale marcia dalla pagoda di Shwedagon a quella di Sule. Ma non è una mattina come le altre. I dimostranti non sono i centomila di lunedì e nemmeno i 35mila di martedì. Avanzano timorosi, esitanti. Sanno cosa rischiano. Dodici ore prima il «grande fratello» in divisa ha decretato il coprifuoco, ha vietato gli assembramenti.
All’alba i soldati sono scesi dai camion. Ora sono davanti all’ingresso del tempio di Sule. Altri, tanti, fanno cordone in mezzo alla strada. Ordinano al serpente arancione di fermarsi. Quello sussulta, ondeggia, ma non si arresta. Le canne dei mitragliatori s’infiammano, i proiettili sfiorano la prima fila, si perdono nel cielo. Qualcuno fugge, i soldati avanzano da tutte le parti, irrompono nel corteo, calano i calci dei mitra sulle tuniche in fuga, rompono teste e denti a pugni e calci. Qualcuno non si arrende, reagisce, assalta la polizia. Due motociclette sono in fiamme, due agenti fuggono a piedi. Poi la mira si abbassa, i colpi si fanno più intensi, i proiettili ad altezza d’uomo inseguono i dimostranti in fuga.
Una giovane monaca si si attacca con la schiena al muro di una casa, grida tutta la sua paura nel microfono di uno dei pochissimi giornalisti presenti. «Ci uccideranno tutti, forse dobbiamo arrenderci, rinunciare, tornare alla vita normale». Qualcun altro non molla. «I monaci hanno avuto coraggio, hanno rischiato la vita per noi, ora tocca a noi stare al loro fianco», strilla uno studente, mentre i suoi compagni portano in salvo le bandiere rosse con il pavone dorato, il simbolo del movimento per la democrazia.
Nella strada principale è cominciata la grande retata. I camion si riempiono di tuniche arancione, corrono verso le prigioni. Le voci parlano di almeno 300 monaci imprigionati. Khim Maung Win, vicedirettore della Voce della Birmania democratica, un organo dell’opposizione in esilio, riferisce di otto morti e quattro feriti gravi, mentre fonti del «governo in esilio» a Washington parlano di cinque caduti.
Il regime tiene basse le cifre, ma non nega nulla. Annuncia che le truppe hanno aperto il fuoco per bloccare una folla di diecimila persone, tra cui «molti cosiddetti monaci» davanti al tempio di di Sula, ma ammette una sola vittima. L’uso della forza - ripetono le fonti ufficiali - è stata ridotta al minimo, la morte di quel manifestante trentenne colpito da un proiettile al capo è la conseguenza del rifiuto dei dimostranti di abbandonare la strada.
Intanto però gli ufficiali di regime impongono il silenzio ai giornalisti, convocano per stamattina tutti gli ambasciatori presenti nella capitale. La dittatura ha ripreso il fucile, il peggio deve forse ancora arrivare.
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