Economia

Protezionismo, scatta l’allarme di G-7 e Bce

«L’autarchia economica nazionale sta forse diventando un lusso che ci possiamo permettere». Vale davvero la pena rileggere il breve saggio con cui John Maynard Keynes, nel 1933, ormai liberista pentito, confessava la propria attrazione (fatale) verso il modello mercantile chiuso verso l’esterno. Sull’interventismo dello Stato in tempi di crisi si è detto e scritto molto negli ultimi mesi. Necessario, forse. Pericoloso, senza dubbio, per la possibile deriva verso forme di protezionismo. Anche la storia recente, oltre a quella tragica degli anni ’40 connessa per buona parte alle strategie di nazionalismo economico adottate, è punteggiata dall’adozione di dazi (dall’acciaio all’abbigliamento, dalle calzature all’auto) e dalle conseguenti ritorsioni commerciali decise da chi il dazio lo subiva. Una guerra spesso senza vincitori.
Già nell’Ottocento passava per buona l’equazione secondo cui le tariffe doganali contribuivano a contenere la disoccupazione. Impeccabile quando veste i panni da riformista della filiera socio-ambientale, Barack Obama pare invece avere una visione tardo-romantica in materia economica. E come risposta ai 3,6 milioni di posti di lavoro bruciati dall’inizio della recessione (dicembre 2007), offre l’antico rimedio: «Buy american». Una ricetta per le stagioni di magra. Tanto demagogica e inefficace, quanto capace di far scattare subito l’allarme dei Paesi esportatori. Giappone e Germania, infatti, vogliono alzare la voce nei confronti dell’alleato americano, cogliendo l’occasione offerta dal vertice G7 che si apre oggi a Roma sotto la presidenza italiana. Un «battesimo» scomodo per il neosegretario al Tesoro Usa, Timothy Geithner. Hoichi Nakagawa, ministro delle Finanze giapponesi, ha già accusato gli americani di non saper imparare dagli errori del passato. Di non ricordare come lo Smooth-Hawley Act, la legge che nel 1930 alzò a dismisura le tariffe doganali sulle importazioni di ben 20mila prodotti, aprì la strada a una depressione su scala mondiale.
Ma i pruriti protezionistici non riguardano solo l’America. Che dire delle recenti proteste degli operai inglesi contro i lavoratori italiani della Iram, accusati di rubare preziosi posti di lavoro? Il premier Gordon Brown ha definito «indifendibili» queste rivendicazioni; quello lussemburghese, Jean-Claude Juncker, le ha liquidate come «cretinismo che colpisce alcuni». Gli scioperi anti-straniero sono però la spia di un malessere: alimentato in parte dalla paura della disoccupazione, e in parte dal vedere aiutate le banche e meno tutelati i più deboli. In questa lunga fase di crisi, l’Europa ha peraltro mostrato di non sapersi muovere in modo coordinato: non lo ha fatto nel momento di soccorrere il disastrato settore bancario; non lo sta facendo ora con l’offerta di stampelle di varia natura e consistenza all’automobile. Gli aiuti francesi, sospettati di protezionismo, hanno irritato la Germania. Il ministro delle Finanze, Peer Steinbrueck, ha parlato di «protezionismo indiretto nei piani di sostegno all’economia». Il premier François Fillon ha respinto ieri ogni addebito («L’alternativa sarebbe stata l’estrema difficoltà dell’industria francese e dunque degli stabilimenti in altri Paesi europei» di Renault e Peugeot), ma la Commissione vuole vederci chiaro. Il piano transalpino finirà sotto la lente di Bruxelles per assicurare, ha detto ieri il presidente Josè Barroso, che non ci siano «effetti collaterali negativi in altri Paesi». Rimosso (per ora) l’incubo inflazione, anche la Bce vede come un pericolo le spinte autarchiche. Nel Bollettino mensile diffuso ieri, l’Eurotower raccomanda di «arginare» tali misure poichè «l'impatto sulla crescita economica e sul benessere delle persone» di tali interventi «è sostanzialmente negativo». Tanto più in un periodo nero come quello attuale, dove i canali delle esportazioni si vanno stringendo.
Insomma, l’atmosfera meno favorevole per mandare in porto i negoziati del Doha Round sulla liberalizzazione del commercio mondiale.

Che rischiano di finire sommersi dall’onda montante del protezionismo.

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