Myanmar, un Paese al Rubicone, un Paese al guado dopo un mese di marce nei fanghi della stagione delle piogge. Da ieri sera a Yangon e a Mandalay vige il coprifuoco, sono vietate le riunioni di più di cinque persone, bandite le proteste. Ora tutti devono decidere. E in fretta. I monaci devono scegliere tra la grande rischiosa sfida e il ritorno nelle pagode. La giunta militare deve decidere tra la folle giostra del sangue e dellorrore già esibita nell88 o quella di uninedita trattativa. Il resto del mondo deve capire se voltare lo sguardo o appoggiare lanelito di libertà di un popolo schiacciato da mezzo secolo di dittatura.
Nelle principali città della vecchia Birmania la situazione si deteriora a vista docchio. A guardare a vista monaci e dimostranti non ci sono più i poliziotti e i miliziani. Da ieri intorno al municipio di Yangon e alla pagoda di Sula sono schierati i militari. Attendono chiusi nei camion, sorvegliano i monaci scalzi nella pioggia, stringono tra le ginocchia le canne dei fucili, preparano scudi e bastoni, aspettano ordini. Lavvertimento, il monito che molti temono fatale è già scattato. Lhanno emesso le decine dinquietanti, gracchianti altoparlanti che ieri mattina hanno fatto il giro di Yangon diffondendo il messaggio del grande e crudele fratello, lingiunzione dei tiranni in divisa a non rischiare oltre. Quelloltre è chiaro a tutti. Chi diciannove anni fa cera ricorda i corpi degli studenti nelle strade, le sparatorie sulla folla, il grande silenzio del giorno dopo, la repressione abbattutasi su chi non era morto o fuggito. Da oggi potrebbe succedere di nuovo. In qualsiasi momento. La 22ª divisione, la punta di lancia dei generali usata nel 1988 per massacrare gli studenti e ritornata poi a far stragi di minoranze etniche ed insorti nelle foreste orientali, sta di nuovo marciando su Yangon. I ribelli karen lhanno vista abbandonare gli accampamenti, puntare sulla capitale.
Quelle voci, quegli avvertimenti non sono bastati, almeno ieri, a fermare le tuniche arancione. Per lottavo giorno i monaci dalle teste rasate scendono dal tempio di Shwedagon, invadono Yangon, invocano libertà e democrazia. «Non è una protesta economica, la rivolta contro gli aumenti di carburante di un mese fa è stata solo il primo passo spiega un monaco -. Lottiamo per la democrazia, per consentire alla nostra gente di scegliere il proprio futuro, nessuno tollera più questo regime».
Ora bisogna vedere se il regime tollererà la sfida. Certo i monaci e Aung San Suu Kyi, la battagliera leader dellopposizione costretta agli arresti domiciliari, stavolta non sono soli. Dietro a loro si agita la lunga mano della Cina, di una grande potenza stufa di venir additata come il principale fornitore, assieme allIndia, della dittatura più ottusa del pianeta. Da quellimmensa gabbia di anime e ricchezze escono petrolio e gas, giada e rubini, teak e legnami pregiati. Per ventanni hanno soddisfatto la voracità energetica di due grandi potenze economiche in pieno sviluppo e ripagato la brama di generali corrotti. Ma ormai neppure la Cina sopporta più lonta di una simile complicità.
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