In Italia per essere considerati registi cattolici bisogna farsi presentare da Umberto Galimberti, firmare appelli con Margherita Hack, partecipare a conferenze con Massimo Cacciari. Ma questo ancora non basta: bisogna girare film in cui si ripudia il Vangelo, si attaccano i preti e si mettono in bocca a un simil-Cristo le parole di un circa-Rousseau, negando l’esistenza del peccato originale e invitando gli uomini a salvarsi da soli, con i propri mezzi, perché la Chiesa non si deve impicciare e anche Dio è meglio che se ne stia alla larga. Bisogna quindi essere autori di Centochiodi e chiamarsi Ermanno Olmi.
Se invece
si va a messa tutti i giorni e
non ci si affretta a smentire una
religiosità papista, se non addirittura
ratzingeriana, non si viene
considerati registi cattolici bensì,
orrore, registi di destra, e perciò
meritevoli di essere tagliati
fuori dal giro dei premi, delle sovvenzioni
e dei convegni. In quest’ultimo
caso ci si chiama ovviamente
Pupi Avati. Per un lettore
del Vangelo non ci sono motivi di
sorpresa, è stato lo stesso Gesù a
porre sull’avviso i suoi discepoli:
«E sarete odiati da tutti a causa
del mio nome». Meno male che il
regista bolognese ha saputo fare
di necessità virtù, fondando col
fratello Antonio una società di
produzione grazie alla quale, rischiando
soldi propri e non del
contribuente, gira quattro film
nello stesso tempo in cui Nanni
Moretti scrive mezza sceneggiatura.
Eppure la questione va toccata.
Non ha mai pensato di mimetizzare
la sua appartenenza religiosa,
possibile causa di ostacoli?
«Al contrario. Io certi problemi me
li sono andati a cercare, ho capito
che l’isolamento mi era necessario
per difendere la mia identità.
Quando sono arrivato a Roma, nei
primi anni Settanta,
cominciai
a frequentare
il salotto
di Laura Betti:
c’erano Moravia,
Pasolini,
Bernardo Bertolucci...
Era
un contesto affascinante
e rischiavodi
venire
assorbito».
Divenire omologato,
per
usare
un’espressione
proprio di
Pasolini.
«Sì, omologato,
adeguato.
Ma per fortuna me ne accorsi in
tempo. Uscii da quel mondo dichiarando,
un paio di sere di seguito, di
essere cattolico praticante e di votare
Democrazia cristiana. Lo feci
apposta, in modo provocatorio,
ero consapevole delle conseguenze».
C’era il rischio della disoccupazione.
«Ero già disoccupato da quattro
anni. Ma per fortuna, sempre grazie
a Laura Betti, che era una specie
di crocerossina e mi aiutò a trovare
il produttore, realizzai il mio
primo successo, La mazurka del
barone, della santa e del fico fiorone.
Protagonista Ugo Tognazzi».
Il titolo fa venire in mente le commedie
scollacciate degli anni Settanta,
come Quel gran pezzo dell’Ubalda.
Ovviamentel’argomento
era diverso, ma è anche vero
che i suoi film non sono mai immediatamente
riconoscibili come
film religiosi.
«Sì, io nonf accio film espliciti, biblici,
come la Lux di Bernabei, eppure il mio eroe è il
povero
di spirito così
come viene definito
da Cristo nelle Beatitudini.
Nick Novecento,
uno che non
fingeva di essere
un ingenuo ma che
ingenuo lo era davvero,
ha incarnato
perfettamente questo
modello. Nei
miei film racconto
la vita del perdente,
dell’essere umano che vorrebbe essere
felice ma non
ce la fa, e che per
questo merita la
massima attenzione».
Va a messa abitualmente?
«Vado a messa tutte le sere nella
nostra parrocchia di San Giacomo,
invia del Corso, qui a Roma, e occupo
la stessa panca che occupava
mia madre».
Quindi la fede è una questione di
famiglia.
«Ho avuto un’educazione profondamente
religiosa, entrambi i miei
genitori erano cattolici praticanti.
Ma un tempo non andavo a messa
così di frequente. Quando è morta
mia madre ho pensato fosse giusto
prendere il suo posto».
Raccogliere il testimone.
«Sì,perché metterein pratica tutto
il Vangelo è impossibile, va oltre
l’umano,il Vangelo indica una direzione ma non un traguardo accessibile
in vita,mentre invece è possibile
seguire puntualmente i riti. C’è
solo un momento che mi mette in
crisi, quello dell’omelia, purtroppo
ci sono tanti sacerdoti senza talento
e senza vocazione».
Se i preti sono quello che sono per
fortuna c’è il Papa.
«All’inizio temevo che il confronto
con Giovanni Paolo II fosse insostenibile,
ma poi Benedetto XVI mi ha
convinto con le sue
dichiarazioni contro
il relativismo,
che è il problema
numero uno della
cultura occidentale
e il tema che più mi
angustia. Io vivo circondato
da persone
che si sono costruite
una fede
prêt-à-porter e da
non credenti che
mi guardano con
una insopportabile
espressione di compatimento.
È la supponenza
che tutta
una cultura di sinistra
ha sviluppato
nei riguardi di una
cultura che di sinistra non ha mai
voluto essere».
L’ambiente del cinema non si è
mai segnalato per devozione.
«La cartina al tornasolesonoifunerali
della gente di spettacolo alla
chiesa degli artisti in Piazza del Popolo.
Ci sono tante persone che partecipano
e non partecipano, sembrano voler
essere da un’altra parte
e al momento del Padre Nostro
non muovono un labbro».
Però mi risulta che nonostante
tuttoqualchealtro regista cattolico
ci sia: Giulio Base, Alessandro
D’Alatri, Enrico Vanzina... E in
passato abbiamo avuto il grande
Fellini.
«Anche Fellini entrava in chiesa
con qualche imbarazzo. Me lo ricordo
bene perché lo incontravo a
San Giacomo quando andava a
prendere Giulietta Masina, che era
amica di mia madre e come lei praticante
assidua».
Ai tuoi figli hai trasmesso la religione così come tua madre ha fatto
con te?
«I miei tre figli seguono ancora oggi,
magari senza saperlo, non gli
insegnamenti miei ma quelli dei
mieigenitori, perché io ho trasmesso
a loro esattamente quello che a
mia volta avevo ricevuto. Valori
inalterati, applicabili all’oggi senza
nessun disagio perché, al di là
delle apparenze, nella sostanza
nulla è mai mutato».
Il cuore dell’uomo resta sempre
quello, facile preda del peccato. I
cineasti in particolare godono di
cattivafama ,il regista ce lo immaginiamo
come un erotomane che
colleziona attrici.
«È uno stereotipo. Io che prima di
fare cinema sono stato per quattro
anni direttore della Findus per
l’Emilia-Romagna e le Marcheposso
dire che l’ambiente impiegatizio,
tra uffici e segretarie, è molto
più sensibile alla questione. L’ho
raccontato in un film che si intitolava
appunto Impiegati. Un regista
invece è tutto
preso dal suo
lavoro, spesso
l’appagamento
lo trova lì. Io
per esempio
faccio cinema
18 ore al giorno
e non ho il
tempo né la voglia di frequentare
le attrici
fuori dal set. A
dire la verità
non frequento
nessuno dell’ambiente,
neanche
attori o
registi».
Bellaforza,sono
loro che
non la vogliono.
«È vero, né io né mio fratello veniamo mai invitati
alle iniziative di settore,
questo daun lato ci inorgoglisce
dall’altro porta a farci una domanda:
che cosa abbiamo fatto di
male?».
Il male, appunto: anche il Pupi
Avati tutto lavoro e famiglia un
vizio ce l’avrà.
«L’invidia. Io non riesco a non invidiare,
se un collega fa un film di
grande successo io come cristiano
dovrei essere contento per lui...».
E invece?
«E invece la cosa mi fa molto incazzare
».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.