Pupo: sono rinato adesso gioco solo per gioco

La roulette deve rimanere una libera scelta. Invece di offrire la cena agli amici, si va a fare due puntate. Ma senza esagerare

Paolo Giordano

nostro inviato a Venezia

Cena. Poi su su fino al terzo piano, quasi di corsa sulle scale di velluto, con gli occhi bassi. Si gioca, ragazzi. Di nuovo, ragazzi. «Poi ti spiego». Così Enzo Ghinazzi abbandona «quel cantante che si fa chiamare Pupo», lì di sotto a tavola, e torna a fare i conti con il tavolo del Casinò. Con la roulette. Con lo chemin de fer. Con il suo passato. Dopo cinque anni, dice. Avesse potuto, Vittorio De Sica l’avrebbe raccontata bene, questa scena, quando scrisse l’introduzione al libro 29 e cavalli. Il soffio caldissimo della porta davanti ai tavoli del salone ottocentesco lucido di marmi e lacrime. Gli occhi fissi di cento, centocinquanta persone in disciplinata attesa. Gli occhi sbarrati di Enzo. «Nostalgia, eh?» gli dice una bocca. Sembra più paura, invece, o smarrimento. «Vedi quel tavolo? È quello del gioco più pesante, dello chemin duro. Ma stasera è vuoto». Sull’altro, il banco ora è di quattromila e duecento euro: «Vuoi che lo chiamiamo subito?», dice da bullo. Per carità. Una volta, nel 1983 a Saint Vincent, chiamò il «banco solo!» e in un minuto, non di più, perse centotrenta milioni di lire, che oggi sarebbero quasi cinquecentomila euro e «ci ho messo cinque anni solo per recuperare quel guaio».
Stasera in tasca di euro ce ne sono soltanto cinquecento e guai se andiamo oltre. «Poi ti spiego». Nelle sale da gioco le regole, anche umane, hanno un’altra dimensione: qui ci si conosce la prima volta e poi non ci si dimentica più, si prendono altri soprannomi che valgono solo fino alla porta d’uscita. E quando a Enzo si avvicina un volto lontano, ecco che «ciao, tu sei di Santacroce, l’amico di Filippi»... Chissà da quanto tempo non si incrociavano. «Tanti anni fa qui una sera avevo cambiato venti milioni, perdendoli subito. Stavo uscendo quando ho visto un banco da otto milioni. Gioco. Perdo ma ormai ero scoperto, neanche una lira. Il croupier, che in questi casi risponde personalmente, mi dice: “Da lei, signor Ghinazzi, questa proprio non me l’aspettavo”. Allora corro all’ufficio fidi, ma non mi cambiano nulla. Mi sono sentito una merda. Esco, giro i bar qui intorno per racimolarli dai prestasoldi, che chiedono un interesse a vista del 10 per cento, più o meno il 3650 per cento l’anno. Dopo mezz’ora torno con dieci milioni, otto li do al croupier, altri due li perdo in due minuti. Una figura pazzesca e ne ho fatte tantissime, troppe». Quando parla, Enzo Ghinazzi ha gli occhi come tutti gli altri qui dentro: fissi sul tavolo, e anche i lineamenti sono cambiati, irrigiditi. C’è l’attrazione, fortissima, il pulsare di quello che, quando sei fuori di qui, chiami volontà autodistruttiva e che invece al tavolo diventa perfidamente solo passione. Però ora, dopo che ha perso i miliardi e la faccia, dopo che al Casinò è venuto con la Jaguar ma anche con una Tipo di seconda mano, ora lui è finalmente un giocodipendente dalla modica quantità. Si è disintossicato, forse la mania di puntare forte è più insopportabile quando nella vita si sta perdendo, si è in astinenza di soddisfazioni e si dimentica che «quando ne hai bisogno, non devi giocare perché è sicuro che perdi». Oggi Enzo Ghinazzi è uno degli uomini d’oro della tv, tutte le sere fa sette o otto milioni di spettatori con Affari tuoi, ha cinquant’anni appena scoccati ed è un equilibrista, come dice una sua canzone: cammina sul filo e la sua rete è l’autoironia, difficile che si schianti di nuovo sulla roulette. Stasera punta 50 euro sull’8 e sull’11. Perde: è uscito il tredici. «È sempre e solo un numero che fa la differenza». Punta altri 250 sul diciotto. Esce il diciannove. «Nostalgia, eh Pupo?». No. «Il Casinò va preso con i soldi che puoi permetterti, deve essere una libera scelta. Invece di offrire una cena ai tuoi amici, ti siedi al tavolo e ti giochi l’equivalente, senza esagerare».
Quando usciva di qui, negli anni bui in cui Pupo era più che altro un nome giusto per le battute dei comici, il ritorno sul traghetto fino al parcheggio in piazza Roma era il calvario di un disgraziato. Se perdeva, annichilito: e per fortuna almeno l’auto aveva il pieno di benzina. Se vinceva, quando cioè gettava in mille pezzi nel Canal Grande gli assegni restituiti dai prestasoldi, l’euforia non andava più in là dell’alba. «Una notte, all’inizio degli Ottanta, avevo perso l’impossibile e decisi di tornare subito a casa. Arrivo a Ponticino e incrocio mia mamma che mi fa: "Non ce la fo più ad andare avanti, il pane è aumentato di venti lire". Venti lire. Io avevo buttato milioni».

Punta gli ultimi duecento euro, li brucia a una velocità folle e distratta, ma il suo volto ora è quello di chi passa a pagare il conto della cena e ha già il cappotto addosso. «Come va la partita?» chiede un’altra bocca. «In bocca al lupo, io devo andare via».

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