Gian Battista Bozzo
nostro inviato a Londra
L'Europa sta diventando meno sicura? Gli attentati di Londra, giunti mentre incominciava ad affievolirsi il ricordo della strage nella stazione madrilena di Atocha, rilanciano con prepotenza l'interrogativo. «Sapevamo che sarebbe toccato anche a noi: era solo questione di tempo», dice al Giornale Rosemary Hollis, direttore del prestigioso Royal Institute of International Affairs, presieduto dall'ex segretario generale della Nato Lord Robertson e reputato il più importante centro di analisi politica nel Regno Unito, fra i più ascoltati a livello globale. A Chatham House, nel silenzio di St. James Square, la dottoressa Hollis parla di terrorismo ed Europa, avvertendo anche l'Italia: «Al Qaida ha un'agenda politica, e il vostro Paese ne fa parte».
Oggi il Financial Times sostiene che la strategia politica di Bush, secondo cui la guerra al terrore ha reso gli Stati Uniti e i Paesi europei più sicuri, è messa in dubbio dall'attacco terroristico a Londra. Lei pensa che oggi l'Europa sia meno sicura?
«Sinceramente, non credo che l'Europa sarebbe stata più sicura senza la guerra in Irak. Ci sarebbero stati ugualmente problemi. Il conflitto in Irak ha tuttavia creato un focus intorno al quale si muovono terroristi e fiancheggiatori. Ed in questo senso, la guerra ha contribuito ad aumentare i pericoli. Ma non penso davvero che i Paesi europei sarebbero stati più tranquilli se non vi fosse stata l'operazione degli alleati a Bagdad».
Tony Blair, al G8 di Edimburgo, ha detto: i terroristi non ci costringeranno a cambiare la nostra vita, i nostri valori. Ma può essere che cambi, per qualche verso, la strategia politica della Gran Bretagna?
«È una domanda importante, questa. È chiaro che i terroristi tentano, con gli attentati, di condizionare la politica nei nostri Paesi. Al Qaida ha un'agenda politica, non è solo un fenomeno perverso di estremismo islamico. E nel cuore dell'agenda politica di Al Qaida ci sono gli Stati Uniti e i loro alleati, la loro presenza ed influenza nella regione mediorientale. La Gran Bretagna è uno di questi Paesi sotto mira. Adesso però dobbiamo sapere se le bombe di Londra rappresentano un attacco di terroristi con base all'interno, oppure importati dall'estero. Vede, l'attentato di Atocha, benché gravissimo, è stato almeno in parte di natura locale. E di natura locale si può parlare con certezza riguardo il terrorismo ceceno in Russia. Per gli attentati di Londra non sappiamo ancora. Gli immigrati mediorientali che vivono da noi un tempo potevano andare a studiare in Pakistan, ma oggi, arrivati alla seconda o alla terza generazione, non mi sembra davvero che siano in prima fila nel campo di battaglia. I sistemi di reclutamento dei giovani terroristi sono cambiati, oggi passano molto spesso per la rete, per Internet, attraverso siti che vanno e vengono, e non attraverso le moschee. Questa è la sfida più difficile per l'intelligence e la polizia».
La sigla terroristica che rivendica gli attentati di Londra è «Al Qaida Jihad in Europa». Ne aveva mai sentito parlare?
«No, non l'ho mai sentita. Vorrei ricordare che la vecchia Al Qaida non si assumeva mai pubblicamente la responsabilità di un attentato. Lo fanno ora altri gruppi, come quello di Al Zarqawi, che catturano gli ostaggi e tagliano loro la testa. Difficile dire quali rivendicazioni siano genuine e quali no, ma anche quelle false sono parte del fenomeno con cui ci stiamo confrontando. Ho ricevuto poco fa una e-mail da un nostro contatto iracheno che ora non si trova laggiù, un messaggio di condoglianze per le vittime civili degli attentati in cui però si dice anche che queste bombe rappresentano un avvertimento: gli inglesi se ne devono andare dall'Irak. Ci sono molti nazionalisti, contrari alla presenza di soldati stranieri, che magari non vorrebbero vittime civili, ma che desiderano l'allontanamento degli stranieri dal loro Paese, anche attraverso gli attentati».
Il messaggio dei terroristi minaccia apertamente anche l'Italia e la Danimarca, alleati di americani e britannici nelle operazioni in Irak.
«Credo che anche per l'Italia si possa dire quanto sostenevano i nostri servizi segreti per l'Inghilterra: è solo questione di tempo. Ci aspettiamo dunque che qualcosa arrivi da questa nuova Al Qaida di cui abbiamo parlato. È possibile anche qualcosa di serio. L'Italia ha lo stesso problema di Gran Bretagna e Danimarca, e questo il vostro premier lo sa. Berlusconi ha detto più volte che le truppe italiane torneranno a casa appena possibile. Ma nessuno sa quando. Questo è lo stesso problema che sta affrontando Blair. Perché è vero che restare indefinitamente in Irak non risolve nulla; ma è anche vero che un'uscita prematura delle truppe alleate può far collassare in un attimo il Paese. Donald Rumsfeld ha detto che in Irak si può andare avanti ancora per un decennio, nessuno può fare previsioni serie».
La Gran Bretagna è da qualche giorno presidente di turno dell'Unione Europea. È lecito attendersi che dopo i fatti di Londra la presidenza britannica si impegni in una strategia antiterroristica comune, a livello europeo?
«Da tempo in Europa si pratica, anche con successo, il coordinamento dell'intelligence. Si condividono anche le migliori pratiche di risposta all'emergenza. È nel coordinamento in Irak che vedo alcuni limiti (non ne parla esplicitamente, la dottoressa Hollis, ma sembra proprio che si riferisca anche al caso Calipari, ndr).
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