Il 7 aprile di trent’anni fa gli italiani si sintonizzarono sul telegiornale della sera e ascoltarono una notizia sconvolgente: i carabinieri avevano compiuto un’enorme retata, la più vasta fino ad ora, contro i terroristi. Tra questi, oltre a giovani vari, c’erano diversi professori universitari, di cui il più noto era il filosofo Toni Negri, accusato nientemeno che di essere uno dei capi delle Br. Gli italiani erano talmente assuefatti e stanchi, che non distinguevano più tra Br, Prima linea e altri gruppi terroristici. Quella colpita il 7 aprile era però un’organizzazione diversa, si chiamava Autonomia operaia e, formalmente, non si presentava come un gruppo clandestino con finalità terroristiche. Solo sulla carta, però, perché le sue azioni erano basate sulla violenza. Gli autonomi teorizzavano l’illegalità diffusa, la rivoluzione dell’«operaio sociale», la sovversione contro lo Stato. Poi cercavano di metterla in pratica: inventarono gli «espropri proletari» nei grandi magazzini ed esaltavano le violenze e i sabotaggi in fabbrica.
Alle manifestazioni partecipavano con i passamontagna, le spranghe e molti con la P 38, quasi un simbolo di appartenenza. Durante le manifestazioni gli Autonomi avevano spesso incendiato e non solo metaforicamente: c’erano loro dietro la battaglia di Piazza Indipendenza a Roma nel febbraio ’77 (e poi nella cacciata di Luciano Lama dalla Sapienza nell’aprile), loro nei disordini di Bologna del marzo, loro nelle violenze di via De Amicis a Milano, nel maggio, in cui trovò la morte il vicebrigadiere Antonio Custrà. Gli autonomi detenevano illegalmente pistole e fucili, rapinavano armerie, piazzavano bombe vicino a fabbriche e carceri. Non a caso dall’Autonomia in diversi partirono verso Prima linea, o verso le Brigate 28 marzo di Barbone, che nell’80 uccisero Walter Tobagi.
Le violenze degli Autonomi erano quotidiane, con interi quartieri sotto il loro controllo: via dei Volsci a Roma e, a Padova, la Facoltà di Scienze politiche, dove regnava la prevaricazione. Dopo il ’77, il loro anno, le violenze diminuirono, però quelle grandi ed eclatanti, non quelle diffuse. Naturale che da tempo la magistratura indagasse. L’operazione, che coinvolse anche Milano e Roma, partì però da Padova, dove il vice procuratore Pietro Calogero era convinto della stretta connessione tra il livello direttivo delle Br e quello dell’Autonomia. E aveva già avanzato le sue ipotesi in interviste pubbliche. Il capo d’accusa degli arresti del 7 aprile era basato su questa convinzione, che poi la stampa chiamò «teorema Calogero», mentre le indagini si avvalsero del ruolo fondamentale dei pentiti, anche se il Parlamento non aveva ancora introdotto la legislazione premiale nei loro confronti.
L’inchiesta aveva uno sponsor d’eccezione nel Pci, sia quello padovano che quello nazionale. Non che l’ordine di indagare fosse partito da Botteghe oscure, come accusarono subito gli autonomi. Ma certo il supporto politico dei comunisti ci fu: basta sfogliare anche solo i titoli dell’Unità sulla vicenda 7 aprile, per vedere come il giornale comunista fosse il più convinto sostenitore del cosiddetto «teorema Calogero». Non era la prima volta che il Pci, ancora in area di compromesso storico, intendeva dimostrare di aver acquisito il senso dello Stato. Qui però i comunisti lo fecero con particolare zelo.
Del resto gli autonomi fin da subito avevano eletto il Pci come il vero nemico, perché pilastro e cardine della «repressione» - in ciò appoggiati da molti intellettuali francesi, già allora. Ma «colpevolisti» erano quasi tutti gli organi di stampa. Le violenze degli Autonomi erano universalmente esecrate e la condotta dei loro leader, Negri in testa, non era certo tale da muovere una qualche simpatia - e si legga per capire la recente autobiografia della figlia Anna, Con il piede impigliato nella storia (Feltrinelli) Eppure si alzarono diverse voci a difesa.
Ovviamente tutto il mare, ancora in sommovimento, dell’ultrasinistra, vide nel 7 aprile l’inizio della repressione addirittura contro la libera espressione delle idee. Su questo mondo però l’effetto degli arresti ci fu, visto che nei mesi successivi le violenze diminuirono. L’Autonomia restava tuttavia pericolosa: nel novembre l’eminente storico padovano Angelo Ventura, socialista, fu ferito da un attentato rivendicato dagli autonomi. Più numerosi furono i difensori non tanto di Negri, ma delle regole dello stato di diritto. Giornalisti come Giorgio Bocca (che parlò di «nuova inquisizione»), intellettuali allora socialisti come Paolo Flores d’Arcais, diversi esponenti politici da Marco Pannella a Giacomo Mancini, denunciarono i buchi, a dire il vero piuttosto numerosi, dell’impianto accusatorio; addirittura un deputato socialista paragonò il caso all’affare Dreyfus. Vi era poi una certa contiguità intellettuale: sulle riviste dell’Autonomia scrivevano importanti intellettuali gauchiste, Negri era ben conosciuto in molti salotti milanesi, e come filosofo apprezzato anche da figure insospettabili come Norberto Bobbio. Benché alle ultime battute, era il solito fascino della rivoluzione che pervadeva una certa intellighenzia progressista e borghese.
Innocentisti e colpevolisti andarono avanti a dibattere per diverso tempo. Gli accusati restarono a lungo (troppo per uno stato di diritto) in carcere di isolamento, fino a quando, nell’87, il processo in appello fece cadere l’impianto accusatorio iniziale, basato sulla contiguità tra Autonomia e Br. Furono però confermate diverse condanne. A cominciare da Negri che nel frattempo, eletto deputato radicale nell’83, era uscito dal carcere per fuggire a Parigi, protetto dalla «dottrina Mitterrand». Da lì ripartì a scrivere volumi che, una volta tornato in Italia e scontata la sua pena, lo condussero ai grandi successi editoriali dell’inizio degli anni Duemila: pensiamo al vendutissimo Impero, «librone rosso» dei no global di tutto il mondo. E in cui Negri, a ben vedere, non scrive cose molte diverse da quelle dei libri «autonomi» degli anni Settanta.
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