Cultura e Spettacoli

Quando Attilio Bertolucci fece un pieno di cultura all’Italia del boom

Utilizzando il magazine dell’Eni di Mattei, il padre dei registi Bernardo e Giuseppe fece un'operazione di marketing per offrire spazi ai migliori autori

Quando Attilio Bertolucci  
fece un pieno di cultura  
all’Italia del boom

nostro inviato a Mantova

Su Attilio Bertolucci, nato un secolo esatto fa e poeta di un secolo, il Novecento, messo su un’epica pellicola dal figlio maggiore Bernardo, ci sarebbero moltissime cosedadire, come ha titolato il suo libro Bompiani – storia di un percorso intellettuale e creativo che spazia dal cinema alla psicoanalisi alla letteratura – il figlio minore Giuseppe. Bernardo e Giuseppe. I due figli registi e sceneggiatori che qui a Mantova, oggi, in uno degli incontri più attesi, ricorderanno il padre poeta e scrittore.
«Ha fatto il poeta per raccontare la vita. Le emozioni di ogni vita», dicono i figli. E lui stesso ne ebbe più di una, nella sua lunghissima esistenza iniziata nel 1911 a Parma, terra di contadini e di piccole cose, e finita nel 2000 a Roma, città di intellettuali e di grandi sogni. Attilio Bertolucci fu insegnante di storia dell’arte, fu documentarista, fu collaboratore televisivo, fu consulente editoriale, fu traduttore dall’inglese e dal francese, oltre che poeta. Ma fu anche un inedito, nel senso di inusuale, «promotore culturale» («Brutta parola – ammette Giuseppe - ma difficile trovarne un’altra che renda il senso»), quando nel 1955 fu chiamato da Enrico Mattei, potentissimo presidente dell’Eni, a dirigere la rivista aziendale dell’ente petrolifero, un mensile durato fino al 1964 che nel progetto del «corsaro del petrolio» doveva servire da «ideale punto di incontro per tutti coloro che fanno parte della grande famiglia del gruppo Eni». E il cane a sei zampe partorì Il gatto selvatico, traduzione letterale dell’inglese wildcat, termine che indicava il pozzetto esplorativo e per estensione i «ricercatori di petrolio», «uomini avventurosi, spesso avventurieri».
Come fu Attilio Bertolucci durante tutta la sua decennale direzione, dando vita non solo a un raffinato house organ dell’Ente nazionale idrocarburi (che poteva contare su un pubblico di dipendenti interni di 120mila persone!), ma soprattutto a uno straordinario strumento culturale, chiamando a collaborare, accanto alle prime firme del giornalismo dell’epoca, anche poeti e scrittori, da Bassani a Gadda, da Sciascia a Soldati. Come dimostra il volume Rizzoli curato da Paolo Di Stefano, e presentato per l’occasione al festival, Viaggio in Italia: un’antologia dei racconti più belli scritti per Il gatto selvatico. Un magazine patinato che fu sì una spregiudicata operazione di marketing, ma anche un laboratorio intellettuale da cui uscivano ogni mese racconti inediti, piccoli saggi, reportage, rubriche, pezzi di costume, servizi d’attualità. Fu un’esperienza animata da una «Inedita energia», come Mantova intitola l’omaggio odierno ad Attilio Bertolucci. «Un titolo che gli sarebbe piaciuto – osserva il figlio Giuseppe – perché in effetti mio padre era un uomo di grande energia e curiosità. Era attivissimo su molti fronti, dalla poesia alla scrittura per la televisione, dal giornalismo all’editoria. Pieno di lavoro, ma senza mai dare l’impressione di esserne oberato. Faceva tutto con grande grazia e leggerezza. Senza affanni, ma sempre produttivo, energico appunto. E pensare che invece hanno fatto di lui il poeta dell’idillio, della campagna... Un ritratto che viveva come una condanna».
Condannato a scrivere, leggere, tradurre, Attilio Bertolucci era tutto ciò che non corrisponde all’immagine del puro poeta. Immerso nella quotidianità, per nulla individualista o isolato, era un infaticabile animatore: «Portò alla Guanda, una delle case editrici per cui collaborò, libri importantissimi. Chiamò gli intellettuali suoi amici a pubblicare sul Gatto selvatico, lavorava a quella che era allora il Terzo programma della Rai, facendo recensioni cinematografiche, certo allora in redazione con lui c’era Gadda... Eppure non aveva l’incubo del lavoro, della routine... Il suo poema La camera da letto lo scrisse al tavolino di una gelateria romana, “La mela stregata”, in corso Vittorio Emanuele. Era perennemente al lavoro, ma aveva il dono di sembrare uno che non faceva mai fatica. Invece leggeva e guardava tutto». Anche le poesie e i film dei figli. «Come giudicava le cose che facevamo io e Bernardo? Era il nostro primo lettore, e devo dire che lo era anche in modo schifosamente gratificante, nonostante il suo fortissimo senso critico. Sarà stato anche il cuore di padre, sta di fatto che la sua approvazione e il suo apprezzamento, insieme al desiderio di differenziarsi e distanziarsi da lui sul piano professionale, fu per noi una fortissima molla creativa. Certo, sapere di essere sempre sotto giudizio, non era facile. Le sue osservazioni sui film, a esempio, erano minuziose. Mi ricordo che quando vide La comare secca di Bernardo disse che era un film bellissimo, poi gli fece osservare che le scarpe indossate da un militare in una certa scena non erano quelle di ordinanza. Un dettaglio in apparenza minuscolo, ma essenziale ai fini della verità».

Cuore di padre, occhio di poeta.

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