Controcultura

Quando Bersaglieri e Zuavi lottavano per Porta Pia

Nell'anniversario della battaglia lo storico Hubert Heyriés ricostruisce la guerra per Roma

Quando Bersaglieri e Zuavi lottavano per Porta Pia

Venti settembre 1870, alle 5,30 del mattino i cannoni italiani aprono il fuoco su Porta Pia, il punto più debole della vecchia cinta di mura «Aureliane» che circondano Roma, sulla riva sinistra del Tevere. Rapidamente i due pezzi da campagna, che i pontifici erano stati in grado di schierare a difesa di quel pezzo di bastione, sono messi fuori uso.

Dopo di che, la pressione delle truppe italiane inizia a montare. I difensori cercano, con un nutrito fuoco di fucileria, di ostacolarli. Ma è inutile. Il 35esimo battaglione bersaglieri occupa Villa Patrizi fuori dai bastioni, scacciando i pontifici e sgombrando quindi il campo all'attacco diretto. Nel frattempo l'artiglieria comandata da Luigi Pelloux (sì proprio quel Pelloux che sarà capo del repressivo governo tra il 1898 e il 1900) concentra il fuoco su un tratto delle fragili mura lungo circa 30 metri.

Quando i bastioni crollano i bersaglieri caricano, sono le 9,45 del mattino. Intanto al comando pontificio non è stato possibile predisporre nulla per inviare rinforzi ai difensori. La prima richiesta d'aiuto è stata inoltrata allo stato maggiore del generale Hermann Kanzler (1822-1888) già alle 6,45 del mattino. Ma gli italiani hanno sferrato contro le mura, soprattutto verso quelle molto più difendibili della riva destra del Tevere, una serie di attacchi diversivi. E questo ha bloccato la capacità di reazione delle forze pontificie, inferiori di numero e non sempre particolarmente addestrate.

Del resto Pio IX (1792-1878) aveva chiarito con una missiva ai suoi comandi che «In quanto alla durata della difesa, sono in dovere di ordinare che questa debba unicamente consistere in una protesta atta a constatare la violenza e nulla più, cioè ad aprire trattative per la resa ai primi colpi di cannone».

Kanzler invece, da militare d'onore qual era, aveva deciso di resistere almeno sino a che non fosse stata aperta una breccia. Ma vennero tutti superati dagli eventi: il Papa ordinò di fermare i combattimenti alle 9 e 40 e la bandiera bianca fu issata su San Pietro alle 10. Ma intanto i bersaglieri si erano già gettati nella breccia mentre gli zuavi pontifici aprivano un violento fuoco di fucileria. In un quarto d'ora vennero sopraffatti. Altrove i combattimenti proseguivano sporadici, anche se Kanzler aveva già fatto recapitare al comandante delle forze italiane, Raffaele Cadorna (1815-1897), le condizioni di resa. Al prezzo relativamente basso, di 48 caduti e 150 feriti, l'Italia chiudeva così la complessa questione romana che aveva creato tensioni politiche, sin da quando nel marzo 1861 era stato proclamato un Regno d'Italia che però si sentiva orfano della sua vera capitale: Roma.

La fine del dominio temporale dei papi, di cui ricorrono oggi i 150 anni, fu lungi dal far cessare le tensioni politiche interne e i problemi di coscienza dei cattolici, sottoposti dal 1868 al non expedit (il divieto espresso dalla Santa Sede alla loro partecipazione alle elezioni politiche). Poneva però fine a quella guerra fredda (che Garibaldi cercò più volte di far diventare calda) che aveva messo i Savoia in rotta di collisione non solo con Pio IX ma anche con Napoleone III che dell'Italia era stato il grande alleato ma che non poteva permettersi di alienare al suo impero il supporto dei cattolici francesi (e che temeva un'Italia troppo autonoma e senza più un corpo di spedizione francese sempre posizionato nel Lazio). Su questo complesso livello politico della vicenda - fu la Guerra franco prussiana che travolse Napoleone III a fornire all'Italia una possibilità di intervento su Roma prima inimmaginabile - è stato scritto molto. Ora lo storico francese Hubert Heyriès con La breccia di Porta Pia (Il Mulino, pagg. 224, euro 16) mette l'accento proprio sulle vicende militari, che sono state le più trascurate dalla storiografia.

Casa Savoia e il governo italiano ebbero da subito, comprensibilmente, l'interesse a far apparire tutta la vicenda come la meno cruenta possibile. Come un esito naturale dell'Unità che, senza l'intervento del governo centrale, sarebbe comunque avvenuto, ma in forma più violenta e garibaldina. Del resto sul tema era già stato chiaro Cavour (1810-1861): «La nostra stella, o Signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la città eterna, sulla quale 25 secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno Italico».

Quanto a Pio IX aveva scommesso tutte le sue carte su una resistenza che fosse più che altro morale e generasse lo sdegno e l'intervento delle potenze europee. Ma erano cambiati i tempi e gli equilibri. In aggiunta come spiega Heyriès il governo italiano «diede prova di abilità nell'escludere dalla questione romana la dimensione internazionale, rendendola un semplice affare di politica interna».

Rivisitando gli eventi, Heyriès ridà lo spazio che meritano anche ai soldati che combatterono dalla parte del Pontefice. Nella narrazione tradizionale scompaiono sullo sfondo, i quadri più famosi della piccola battaglia si concentrano quasi solo sui bersaglieri, come quello, notissimo, di Michele Cammarano. Heyriès ricostruisce, soprattutto per quanto riguarda il reggimento degli zuavi (in maggioranza francesi, belgi e olandesi volontari), i moventi e le tensioni ideali che spinsero questi uomini a battersi in difesa del Papa Re. Molti di loro avrebbero volentieri versato il proprio sangue per quella che consideravano una nuova crociata. Alcuni lo fecero. E molti si portarono dietro con dolore la scelta di cedere senza combattere, come durante la capitolazione di Civitavecchia, altra fondamentale piazzaforte pontificia. Alcuni restarono di sale: «Eravamo così certi, così preparati alle peripezie di una tenace lotta, così convinti della necessità e dell'inevitabilità di una accanita resistenza contro quel nemico reputato senza fede, senza parola, usurpatore e feroce che naturalissimo ci appariva lo scatenarsi da un momento all'altro della tempesta». La tempesta non vi fu a Civitavecchia e, forse, nemmeno a Porta Pia, al massimo un ultimo temporale estivo. Ma a 150 anni dagli eventi è giusto anche ricordare questi uomini che difesero il passato contro un inevitabile presente. Esattamente come il valore di chi la Breccia attraversò e morì.

Alla fine, essendo una vittoria scomoda agli equilibri interni dello Stato italiano, si è sempre preferito mandare nel dimenticatoio gli zuavi e raccontare quella dei soldati italiani e dei bersaglieri come una passeggiata.

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