Quando il cinema tradisce la cultura

Il cinema non riesce a tradurre in grandi film le grandi vette del pensiero. Non ha trovato un linguaggio giusto, autori e sceneggiatori all’altezza, non sa tradurre il clima e la tensione, il pathos e l’autenticità della grandezza. Non ricordo un gran film su un filosofo, un grande scrittore, o anche un artista: quasi tutti aborti, film-nani sulle spalle di autori giganti, episodi marginali elevati a ritratti, morbosità sul lato intimo, riduzioni a macchiette e stereotipi. Mi sfuggirà qualche opera, ma non mi sovviene un gran film su un pensatore o un pittore, un musicista o un poeta. Sì, qualche film decente su Salieri o su Campana; film bruttini su Nietzsche e su Wittgenstein o su Picasso, sui pittori e su Tolstoj; e non parliamo delle fiction, ma la tv sta al cinema come la scuola dell’obbligo al liceo. Eppure vite straordinarie a volte hanno guarnito autori straordinari. Ma al cinema neanche l’ombra.
Non fa eccezione Le stelle inquiete, uscito l’altro ieri. Un film dignitoso ma senza respiro di grandezza su uno scorcio della vita di Simone Weil. Certo, meglio un piccolo film che il nulla. Però stride la modestia del prodotto rispetto all’eccellenza del personaggio. Un film vittima, soprattutto nella presentazione mediatica, dello stereotipo femminista-antifascista-rivoluzionario della Weil ebrea e perseguitata. Ma la grandezza della Weil non è nell’aver seguito lo spirito radical-progressista del suo tempo, bensì nell’amore per l’eternità e la sete di martirio, nella ricerca di Dio attraverso i deserti del nulla, nell’intreccio di mistica, pensiero e grazia, di metafisica, l’amore per le radici e per il fato, pur nel problematico appartarsi dalla fede cristiana e dalla religione ebraica.
Di quella grazia si trova ricca traccia nelle sue opere, nei suoi carteggi, nelle biografie dedicate a lei. Ma se ne trova scarsa eco nel film di Emanuela Piovano e soprattutto nella melassa a mezzo stampa che l’accompagna. Con semplificazioni miserabili di alcuni giornali, come il tentativo di ritrovare risvolti sessuali in una donna disincarnata; o il penoso scoop allegorico sulla presunta figlia di Simone, identificata in sua nipote Sylvie, figlia di suo fratello. O la liquidazione di Gustave Thibon, che la ospitò nel ’41, come di un semplice contadino di campagna, un po’ monarchico e bigotto. Thibon fu invece un vero filosofo che scelse la vita agricola per amore della terra; ha scritto opere di grande forza spirituale e di amore metafisico per la realtà e per la tradizione, fu considerato il Nietzsche cristiano, curò opere e carteggi che le affidò la Weil.
Nel film si sottolinea l’impressione che la Weil lasciò su Thibon ma non l’inverso: quanto di Thibon e della sua terra c’è per esempio nel suo saggio dedicato al radicamento che capovolge l’immagine di una donna errante e sradicata? In Italia sono usciti, oltre i testi weiliani, L’ombra e la grazia innanzitutto, anche opere notevoli di Thibon come Diagnosi e Ritorno al reale. È splendido il ritratto di Simone che ci lascia Thibon nel libro scritto con Padre Perrin, Simone Weil come l’abbiamo conosciuta, che ritrova in lei «l’egoismo trascendentale dell’eroe» e la sua insopportabile santità, perfino il suo antisemitismo, lei ebrea; la sua goffaggine, la sua inattitudine alla realtà e alla vita pratica e il suo desiderio di mortificarsi, di annientarsi. E ci trafigge il suo dolore per la morte precoce di lei: «Sanno, i morti, ciò che uccidono in noi, lasciandoci? Per noi che l’abbiamo amata, una parte della nostra anima è divenuta una tomba: mille scambi, possibili solo con lei, sospinti fuori dall’esistenza. Ma non ci ha detto che la verità era dalla parte della morte? Ma non dobbiamo coltivare la sua memoria: ciò che ci ha lasciato di essenziale non è un ricordo, ma un riflesso della Presenza eterna. E il tempo non misura ciò che non è nato con lui».
Dov’è questa Simone Weil e lo splendore lieve e sofferto dei suoi Quaderni nella riduzione cinematografica e nelle vulgate correnti, così politically correct e così ideologicamente banali e allineate? A loro vorrei ricordare una storia esemplare e dimenticata. Mi riferisco all’esperienza della Weil nella guerra civile spagnola e al suo carteggio con Bernanos. Uno scrittore reazionario che milita dalla parte dei franchisti narra con nausea a Simone le angherie dei suoi camerati; e una scrittrice rivoluzionaria, militante dalla parte degli anarchici e dei marxisti, racconta con pari onestà le crudeltà compiute dai suoi compagni su preti, suore e fascisti. Un carteggio esemplare nel cavalleresco amore per la verità anche a danno della propria parte, da far studiare ai faziosi e accecati partigiani del nostro presente. In quel carteggio Simone racconta che la banda «rossa» a cui si era aggregata aveva catturato un ragazzo fascista di 15 anni. Il capo della banda, Buenaventura Durruti, dette 24 ore di tempo al ragazzo falangista per pentirsi di essere fascista e aderire alla causa anarco-operaia e repubblicana. La mattina dopo il ragazzo, con candida fierezza, non volle pentirsi della sua fresca coerenza e fu ucciso.
Simone Weil restò scossa dalla crudeltà dei suoi compagni e dall’inerme, adolescenziale purezza del giovane nemico. Poi, parlando della guerra civile spagnola, scrisse: «I nostri hanno versato abbastanza sangue. Sono moralmente complice».

Simone caricava su di sé anche le colpe della sua parte ed era pronta a scontarle sulla propria pelle, a costo della sua stessa vita. Una lezione di vita e d’amore che non trova posto nella vulgata dedicata alla Weil e nel miserabile manicheismo della setta intellettuale dominante.

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