Spettacolo che raschia l'umano fino in fondo quello che Barbara Altissimo ha messo in scena a Torino al Teatro Astra: Polvere. La vita che vorrei. Una scena tridimensionale in cui si confrontano tre mondi, quello della tecnica, quello della parola proverbiale, e quello dell'umano corporeo. Sulla destra della scena una postazione di lampade, monitor e specchi è simmetrica ad una figura di saggio di sapienza orientale che attende in silenzio, l'inizio della performance. Un tappeto di foglie ingiallite che ricopre il centro della scena allude ad una stagione di memorie da raccontare.
Si inizia subito con un corpo a corpo armato e vociante degli speciali protagonisti, che entrano in luce piena da un fuori scena: sono gli «ospiti» del Cottolengo di Torino, uomini e donne con malattie psichiche e fisiche. Entrano armati di pistole e scortati da un ambiguo aguzzino mentre una giovane redentrice raccoglie le armi e le ripone in un cestino. E loro sono sordomuti, invalidi, malati di epilessia... che assumono però nello spettacolo lo status di narratori di verità. Perlomeno di quelle più intime che si raccontano con la voce, ma soprattutto con il corpo. È forse è proprio il corpo ad essere il medium ideale per far risuonare vite in scacco, interrotte e svuotate di desiderio e speranza. Così in un groviglio fatto di radio gracchianti, canzonette orecchiabili, urla disperate, questi corpi, seppur imperfetti, ma di straordinaria grazia umana, fanno uscire le loro voci, raccontando, cantando o chiedendo aiuto. Soprattutto dicendo i loro affetti. In fondo è questo il punto di arrivo di una sperimentazione corporea e fonica che insegna a dire l'amore, o forse solo ad immaginarlo possibile. Che vuole fotografare un'illusione di normalità e di semplicità che può esistere solo nel desiderio: «la vita che vorrei».
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