Cultura e Spettacoli

Quando fare i disoccupati è un lavoro usurante

Immaginate un futuro neanche tanto lontano, il 2016, e una nazione come la Germania. Cercate di figurarvi un Paese in cui ci siano almeno dieci milioni di disoccupati. E pensate a un istituto, che si chiami Sphericon, somigliante a un campo di lavoro o di concentramento. Pensate che serva a formare un piccolo esercito di candidati a un posto. A questo punto avete le principali coordinate del sorprendente e disturbante romanzo di Joachim Zelter, La scuola dei disoccupati (Isbn, pagg. 186, euro 13).
L’atmosfera è vagamente orwelliana, da utopia negativa. A questa fantomatica Sphericon approdano centinaia di persone dai 25 ai 45 anni, ambosessi, il cui unico scopo è trovare un lavoro, un posto qualsiasi, purché sicuro. Quali siano le loro vite precedenti non è chiaro, ma in fondo non è importante. La loro nuova vita comincia di qui. Sveglia alle 6.30 e riposo alle 23; ma c’è anche chi non riposa mai, impegnato a limare e cesellare fino alla perfezione il proprio curruculum vitae. Il direttore e gli istruttori lo ripetono senza sosta: «Tutto il materiale biografico è autoinventato... Un curriculum vitae è una forma di letteratura applicata... Una candidatura azzeccata è come un bestseller: avvincente, trascinante, travolgente... Un’autostrada epica». Attraverso prove e simulazioni e dialoghi sbalorditivi, al limite del nonsense, l’autore ci trascina in un gorgo inesorabile. Quanto più il posto di lavoro è una chimera, tanto più per raggiungerlo bisogna vendere se stessi con forza e abilità sovrumane. Simulare, raschiare il fondo, proporsi al posto dei morti.
Dei due personaggi principali, Roland e Karla, il primo dimostra totale flessibilità alle regole di questo gioco perverso. Karla, invece, decide di ribellarsi e addirittura di respingere preventivamente qualunque offerta. Sceglie l’inferno della disoccupazione. Ma può, un sistema così chiuso e totalitario, consentirglielo? È questa, in fondo, la grande domanda sollevata dal romanzo. Esiste oggi una definizione stessa dell’essere umano che possa prescindere da un suo ruolo sociale (vero o presunto), da un suo «posto» che altro non può essere che un posto di lavoro? O ha ragione il Sistema ad affermare che «la disoccupazione è intollerabile, contro natura, antisociale e disumana»? Tutti i regimi totalitari sembrano temerla e minimizzarla con il ricorso massiccio a finti lavori, denominati con eufemismi buoni solo per compilare statistiche e appagare la burocrazia. L’essere umano ozioso è un pericolo, una scoria dell’ingranaggio sociale.

Per lui/lei, semplicemente, non c’è posto.

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