Controcultura

Quando Guareschi voleva recitare da Don Camillo

Film, traduttori più o meno fedeli e rivelazioni inedite negli atti del grande convegno del 2018

Quando Guareschi voleva recitare da Don Camillo

Castelmassa (Rovigo)

Sapevo che da qualche parte c'era ancora quasi intatta la piazza che è servita per la copertina del primo Don Camillo Mondo Piccolo, pubblicato nel 1948. In occasione del nuovo volume Ritrovare Guareschi, a cura di Ermanno Paccagnini e Daniela Tonolini (Interlinea, pagg. 224, euro 20) che raccoglie gli interventi al grande convegno dedicato allo scrittore nel 2018, nel cinquantenario della morte, sono partito per raggiungere l'argine del Po di Castelmassa, nel Polesine Alto, e lì ho potuto ripescare la prospettiva che Guareschi aveva visto e fotografato in un suo viaggio in bicicletta lungo la Via Emilia. È ancora tutto lì: la chiesa, il campanile, i piccoli portici, uno stradone dritto e largo incorniciato da case basse. Alle mie spalle il fiume. Se non fosse per le auto e i padroncini col furgone e un po' di fumo dai camini di un'industria, l'immagine sarebbe identica.

«Non muoio neanche se mi ammazzano» scriveva Giovannino Guareschi nel suo Diario clandestino, piccolo grande capolavoro composto nei lager nazisti, mentre in Ritrovare Guareschi c'è un capitolo intitolato «Non muoio neanche se mi adattano» dello studioso di cinema Raffaele Chiarulli. In effetti, come si evince dal capitolo, le trasposizioni cinematografiche dei Don Camillo guareschiani sono state complesse riscritture e adattamenti più o meno censurati, travisati, passando dall'italiano ad altre lingue. Chiarulli si addentra nella complessa vicenda produttiva, che ha conosciuto diverse proposte di trasposizione filmica, prima di approdare alla realizzazione firmata dal regista Duvivier.

Lì sull'argine, mentre scattavo qualche foto della piazza, pensavo che in effetti Guareschi è uno di quei pochi autori del Novecento le cui opere resistono nel tempo, sono ancora tutte nel catalogo Rizzoli, e i film tratti dai suoi libri vengono ancora passati con successo in tv. Ma lo scrittore di Parma, a discapito del successo, non ebbe vita facile: sopravvisse alla rovina economica della famiglia, a due guerre mondiali, a una epidemia di spagnola, a due anni di lager in Polonia, al carcere per diffamazione nei confronti di De Gasperi e alle vessazioni del suo fisco. Eppure non sembrò perdere il senso dell'umorismo e lo sguardo che lo ha sempre contraddistinto. È proprio Vittadini, nel suo intervento all'interno di Ritrovare Guareschi, a richiamare la forte affermazione, nell'autore, del valore dell'uomo, del senso del vivere insieme, dell'incontrarsi e del dialogo, soprattutto della coscienza.

Paccagnini al telefono mi dice quali sono state le motivazioni che hanno portato a questo libro: «Prima di tutto ricorreva, tempo fa, l'anniversario dei cinquant'anni dalla scomparsa dell'autore, e abbiamo pensato a un convegno all'Università Cattolica di Milano per provare a capire se si poteva parlare ancora del lavoro guareschiano, del cinema dedicato ai suoi personaggi, della sua visione del mondo...». Che dire ancora di nuovo? «I nostri studi, le ricerche condotte da me, dalla professoressa Daniela Tonolini, Paola Ponti, Arturo Cattaneo, Vittadini, Chiarulli, Enrico Elli - prosegue Paccagnini - sono stati condotti con una prospettiva filologica e comparatistica. Abbiamo analizzato le varianti delle stesure fatte dall'autore, dagli sceneggiatori... Grazie ai figli di Guareschi abbiamo avuto accesso diretto ai dattiloscritti. Migliaia di pagine. Fotografie. Fogli aggiunti al resto che davano l'idea di continue stesure, continui ripensamenti».

Attraverso il libro si entra nell'officina vera e propria di Guareschi e di chi ha lavorato alle sue opere per fare trasposizioni cinematografiche. Cattaneo per esempio approfondisce l'aspetto della pubblicazione nel mercato statunitense, dove il successo commerciale del libro, ma anche quello del film, ha dovuto fare in conti con le stesse sfortune del «mondo piccolo» di Guareschi, tra racconti non tradotti, conseguenza del clima maccartista, che hanno finito per sottolineare soprattutto l'elemento anticomunista; il tutto senza dimenticare il dettato imposto dalla macchina editoriale americana, con interventi sul lessico. Ermanno Paccagnini mi svela un aspetto che non conoscevo: «In origine, quando ancora non era stato scelto Fernandel per fare Don Camillo, Guareschi e Gino Cervi si incontravano per fare ipotetiche prove di recitazione. Nell'idea dell'autore c'era anche l'ipotesi di fare il protagonista del film assieme a uno che gli somigliasse ma stesse in qualche modo agli antipodi, così da formare la coppia di Peppone e Don Camillo. Poi scelsero Fernandel».

Sulle traduzioni dei testi guareschiani l'intervento di Daniela Tonolini si rivela importante e nuovo, perché alcune divergenze nel passaggio dal testo narrativo di Guareschi al film sono dovute proprio a scelte dei traduttori in francese che, oltre ad appiattire in non pochi casi il testo, in altri lo hanno addirittura travisato. Paccagnini invece, in un capitolo intitolato «Sceneggiare la coscienza», analizza il linguaggio del rapporto tra Don Camillo e il Crocifisso e cerca corrispondenze tra i loro dialoghi e le fonti sacre. «Ad esempio - mi dice - nel film Don Camillo alza spesso le mani al cielo, ma in Guareschi non troverai mai scritto che il parroco alza le mani al cielo. Tutt'al più si legge che Don Camillo allarga le braccia davanti al crocefisso...». Chiude il volume Paola Ponti con un saggio che prende le mosse da La scoperta di Milano, che nasce dalla rielaborazione di articoli precedenti il 1941. Una Milano presentata nella sua alterità attraverso un cartellone pubblicitario di Leopoldo Metlicovitz, creato per l'Esposizione Universale del 1906.

Lì a Castelmassa, sull'argine, c'è uno seduto sulla panchina. Guarda verso piazza. Scendo in paese dove una donna vestita di nero dice a un uomo: «Avrei sempre voluto conoscere la Mongolia. Gengis Khan». Un altro che dice a una signora che è importante l'anima. Voci. Vado sotto al portico e contro la parete di un bar una lapide in marmo ricorda le prime parole del Don Camillo: «Ecco il paese. Ecco il piccolo mondo di un mondo piccolo piantato in qualche parte dell'Italia del Nord...

».

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