Quando i Fab Four si esibivano con Peppino di Capri

Accadde al Vigorelli nel 1965: erano già baronetti, ma l’Italia non si fidava e ai concerti non c’era il pienone

nostro inviato a Aosta

Bravi tutti, adesso. Basta chiedere in giro chi erano i Beatles, chi erano mai questi Beatles: risposte a cascata. Ma certo, come no: quattro ragazzini di Liverpool che cambiarono la musica da così a così. E non solo la musica: anche il costume, le mode, la stessa politica mondiale, soffiando note energetiche sulle grandi ribellioni giovanili del Sessantotto. Questo, erano i Beatles. Ciascuno poi si affretta a raccontare orgogliosamente pure i Beatles «suoi»: la prima volta che, il primo bacio con, il primo viaggio a. E la Vespa, e il mangiadischi, e le feste a tapparelle abbassate, e tutto quanto il resto di un'epoca splendida e indimenticabile, forse soltanto perché vissuta nei migliori anni della nostra vita.
Bravi tutti, adesso. I Beatles patrimonio universale dell'umanità. I Beatles immortali e irripetibili. Però attenzione agli scherzi della memoria: l'enfasi nostalgica del mito riesce sempre a sbiadire i semplici risvolti della cronaca. E allora è meglio guardarci dritti negli occhi. Perché niente resti impunito, perché nessuno dimentichi, è bene dircelo serenamente senza tanti giri di parole: l'Italia che oggi ha i capelli imbiancati, se ancora li ha, l'Italia a ciglio umido davanti a un vinile che suona Let it be e Michelle, è la stessa Italia che quarant'anni prima non cade esattamente in delirio ascoltando le stesse note...
Flash-back. 25 giugno 1965. Un manifesto in bianco e nero, sul quale domina soltanto il rosso dello sponsor Coca Cola, annuncia dai muri di Milano un appuntamento musicale. «Velodromo Vigorelli, ore 16 e ore 21.15: The Beatles con Peppino di Capri».
È la prima volta che il complesso inglese arriva da noi. A portarcelo, un uomo dal grande fiuto musicale: Leo Wachter. Il rischio è alto. Difatti, gli Scarafaggi di Liverpool vengono abbinati a Peppino, contrappeso e garanzia. Eppure, non si può certo dire che il gruppo sia sconosciuto: già da due anni, dopo che il Daily Mirror ha coniato in un titolo il neologismo, il mondo è scosso da «Beatlemania». Per i risultati e i successi travolgenti, un paio di settimane prima del viaggio italiano la regina ha concesso ai quattro boys l'alta onorificenza di baronetti. No, non abbiamo molte scusanti: quelli che Leo Wachter porta al Vigorelli non sono scalcagnati signor nessuno raccolti un qualche sordida bettola, ma il gruppo più lanciato dell'intero pianeta musicale. Dal 27 aprile 1963, con il disco From me to you, i Beatles sono al primo posto delle vendite mondiali. Da quel giorno nessuno riesce a schiodarli. Per trovarli al secondo posto bisognerà aspettare il 25 febbraio 1967, con Strawberry fields, undici dischi dopo. Bisogna già parlare di fenomeno intercontinentale. I ragazzi d'Australia e d'America, del Giappone e del Perù, si pettinano a caschetto come loro. In camera collezionano gli oggetti di culto, foto, autografi, magliette, scarpe e copertine. Le ragazze pure le giarrettiere.
Questi sono i Beatles che in un caldo pomeriggio milanese salgono sul palco, prima volta in Italia. Il pubblico non è oceanico. Sul prato, costo del biglietto duemila lire, teen-ager brianzole con i codini laterali e la frangia sugli occhi. Al loro fianco, ragazzi dalle lunghe basette con una gran voglia di baciarsele. In tribuna, più comodo, qualche figlio della Milano borghese e presenzialista.
Un successone? No, non un successone memorabile. Per dire l'epopea: Leo Wachter gira le immagini del concerto e le porta in Rai per un eventuale utilizzo nei notiziari e nelle rubriche. Dalla sua scrivania, il lungimirante funzionario tv si gratta la pelata, perplesso e sicuro di sé: «Cosa vuoi, tra un anno di questi qui nessuno ricorderà più neanche il nome... ».
Naturalmente, le immagini si perdono nel vuoto del cosmo. Mai nessuno le vedrà. Di quel giorno, sopravvive soltanto un filmatino di quattro minuti, girato da un ragazzo dell'epoca, Angelo Farina. Il prodotto - muto, a colori - è tipicamente e sublimamente amatoriale, genere prima comunione ripresa dal nonno: immagini sfuocate e mosse, continue panoramiche da destra e sinistra e viceversa, teste che passano davanti. Eppure è un reperto preziosissimo. Per goderselo, basta fare un salto entro il 4 maggio ad Aosta, dove due grandi cultori come Umberto Buttafava e Enzo Gentile hanno curato la mostra più ricca e sentimentale che l'Italia abbia mai dedicato agli Scarafaggi. Avvertimento personale: durante la visita, che ripercorre la gloriosa parabola attraverso le reliquie profane dell'epoca, passano costantemente in sottofondo le canzoni. Ecco: se per puro caso, mentre si sosta davanti al video di quel concerto al Vigorelli, parte una cosa del tipo Let it be, la pelle d'oca e i peli ritti sulle braccia sono sicuri. Cento per cento. Mi offro da testimone: a me è successo. E non sono neppure uno dei più fanatici. E non sono neppure uno dei più mammolette.
Allora, nel giugno del '65, nessuno in Italia è colto da commozione. E tanto meno si può parlare di isteria collettiva. A Milano il successo è buono, ma vai a sapere quanto ci gioca Peppino Di Capri. Il giorno dopo, a Genova, va uguale. Quanto a Roma, dove i Beatles tengono due concerti il 27 e il 28, le cronache dell'epoca parlano di «poche migliaia i presenti». Quando il gruppo lascia il Paese, non si vede in giro gente che si strappa i capelli per il rimpianto.
Tutti bravi, adesso. Basta dire Beatles e sembra che tutti quanti non abbiamo vissuto che di Beatles. Ma molto onestamente, parlando di allora, quasi tutti dovremmo dire «io non c'ero». Inutile comunque scatenare afflizioni e sensi di colpa: l'Italia arriva dopo, per sentito dire, per pura imitazione, su un sacco di fenomeni anche molto più importanti. E in ogni caso non siamo mai soli. A nostra consolazione, gli storici possono tranquillamente citare quel che succede il primo gennaio 1962 nel cuore di Londra. I giovani Beatles, che già da mesi stanno scatenando coetanei con la musica suonata a mille nello storico covo del Cavern, al 10 di Mathew street, Liverpool, questi giovani Beatles vengono portati dal manager Brian Epstein a un provino negli studi Decca Records. Incidono quindici canzoni, su due bobine. Alla fine, il manager viene convocato dal capoccione discografico e si sente liquidare con questa frase, poi scolpita a caratteri cubitali nella storia della musica, ma anche in quella della pirlaggine umana: «Guitar groups are on the way out». Imbarazzante traduzione: «I gruppi chitarristici stanno passando di moda».
Non è dato sapere se il dirigente Decca sia cugino del funzionario Rai, che più avanti rifiuterà le immagini del concerto al Vigorelli. È noto però come le saccenti previsioni dell'uno e dell'altro risulteranno poi confermate.

«Tra un anno non ricorderemo più nemmeno il loro nome», «I gruppi chitarristici stanno passando di moda»: geniali. In solo nove anni, dall'esordio ufficiale del '61 allo scioglimento del '70, i Beatles semplicemente sconvolgeranno i ritmi secolari del pianeta terra.

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