Ogni Lodo ha il suo destino. Quelli voluti dal premier Silvio Berlusconi, nel 2004 e nel 2009, sono stati giudicati incostituzionali dalla Consulta. Ma una sorta di «lodo speciale», ad personam, adottato in gran segreto dalla procura di Napoli nel 1994 per l’allora presidente della Camera, Giorgio Napolitano, ha funzionato perfettamente. In piena tempesta Tangentopoli, infatti, l’attuale capo dello Stato finisce indagato per una storia di mazzette all’ala migliorista del Pci per i lavori della metropolitana partenopea, vicenda poi finita poi in un nulla di fatto. Aperta l’indagine, ai pm Rosario Cantelmo e Nicola Quatrano, presto si presenta la necessità di «proteggere» la terza carica dello Stato, in un momento di feroce scontro istituzionale e con la fiducia della gente verso la politica ridotta al lumicino. Un avviso di garanzia avrebbe effetti devastanti, vedi quel che in quello stesso anno accade a Silvio Berlusconi indagato a mezzo Corriere della Sera al summit di Napoli.
L’esigenza di salvaguardare le istituzioni, caso unico per Napolitano, si rivela più forte del rispetto delle regole e della norma. E così scatta una «protezione particolare» perché, vista l’aria, se la notizia arrivasse ai giornali si potrebbe arrivare anche alle dimissioni. I magistrati ne sono consapevoli al punto, dunque, di evitare la tradizionale iscrizione nel registro degli indagati. Troppo rischioso. I cronisti di giudiziaria lo scoprirebbero subito. Così appuntano il nome dell’indagato su un semplice foglio di carta, lo chiudono in una busta sigillata, appongono una sigla in codice e poi lo mettono in un armadio blindato. Dopodiché sul Rege (registro generale) scrivono il riferimento criptato senza mettere il nome. Scelta garantista. Compiuta da una procura, quella napoletana, nota per brillare per poca riservatezza se si pensa a quel che anni dopo succederà allorché si tratterà di proteggere un’altra carica istituzionale, quella del premier Silvio Berlusconi, indagato nell’inchiesta a carico dell’ex presidente di Rai Fiction Agostino Saccà. I documenti riguardanti l’indagine a carico dell’attuale inquilino del Quirinale e l’atteggiamento insolito della procura di Napoli, sono venuti alla luce grazie al lavoro certosino svolto da Antonio Massari, autore del libro il «caso De Magistris». Per trovare il link fra Napolitano e De Magistris, Massari torna al 1994, uno degli anni fra i peggiori nello scontro tra magistratura e politica. A Napoli i due Pm dell’inchiesta sulle tangenti per la costruzione della metropolitana si imbattono in una gola profonda che rivela come una quota di quelle «mazzette», circa 200 milioni di vecchie lire, sarebbero finite all’ala «migliorista» del vecchio Pci, da poco Pds, attraverso un percorso molto tortuoso: dal democristiano Cirino Pomicino, i soldi sarebbero transitati nelle mani dell’allora deputato Umberto Ranieri. Quattrini che avrebbero dovuto finanziare la corrente del partito guidata proprio da Napolitano. Dichiarazioni precise, che si arenano al vaglio di riscontri. Tutti e tre, Napolitano, Pomicino e Ranieri, vengono prosciolti.
L’iscrizione nel registro degli indagati per il presidente della Camera, osserva Massari, era però un atto dovuto. Ma a protezione della terza carica dello Stato scatta, appunto, una specie di «Lodo Napolitano». Proteggerlo diventa l’obiettivo principale dei pm. Così decidono di seguire la via del tutto originale del foglietto in cassaforte. A certificare l’anomala procedura viene chiamato un cancelliere a cui però, per un ulteriore scrupolo, non viene rivelato il nome del personaggio sott’inchiesta. C’era da tutelare la dignità della terza carica dello Stato, c’era da proteggere le istituzioni, e nessuno mai si sognerà di rimproverarli per la loro scelta. Un ragionamento che in un paese normale filerebbe a meraviglia, ma che invece è stato contestato a un altro pm, De Magistris per l’appunto, che s’è comportato allo stesso modo dei magistrati napoletani ottenendo però una tirata d’orecchie dai colleghi ispettori. Racconta massari che l’ex pm catanzarese mette sotto inchiesta l’allora deputato di Forza Italia, Giancarlo Pittelli, e invece di annotare il suo nome sul registro degli indagati, per timore che qualcuno possa venirlo a sapere, lo «nasconde» in cassaforte seguendo il medesimo procedimento dei colleghi napoletani con Napolitano. Ma a differenza dell’ex presidente della Camera, De Magistris non lo fa per proteggere la riservatezza del politico. Si comportò così perché teme una fuga di notizie a causa della conoscenze che - secondo l’ex pm, oggi deputato dell’Italia dei Valori - Pittelli ha a palazzo di giustizia. Quando il caso esplode, più di qualche collega di De Magistris, ricorda il precedente. Nonostante ciò il procuratore generale della Cassazione, Vito D'Ambrosio, nel chiedere la «condanna» del pm De Magistris, afferma: «Io non ho mai visto un atto secretato con la chiusura in armadio blindato dell'ufficio.
(Ha collaborato Luca Rocca)
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