Quando Marconi profetizzò il cellulare

Ecco il testamento scientifico del grande fisico, scritto 4 mesi prima di morire, nel 1937: l’inventore della radio sottolinea i limiti della comunicazione "a senso unico" e prevede la possibilità di parlarsi "sia in mezzo all’Oceano che sul pack del Polo"

Quando Marconi profetizzò il cellulare

Di per sé Guglielmo Marconi non era propriamente quello che si definisce uno «scienziato». Marconi, semmai, era un «tecnologo»: pochissima teoria, molta sperimentazione. Per i suoi numerosi detrattori, quando era in vita, era addirittura poco più che un elettricista. Non aveva laurea, non aveva studiato in alcuna università, appena ventenne cominciò da autodidatta facendosi aiutare negli esperimenti dal maggiordomo e per giunta - orrore - brevettava e commercializzava i risultati delle sue scoperte.

Tecnicamente non si può definirlo neppure un genio, cioè una persona dotata di un’innata predisposizione alla creatività. Indro Montanelli, che non sarà stato uno storico della scienza ma sapeva cos’è il talento, diceva che Marconi non aveva una intelligenza superiore, ma possedeva la capacità di concentrarla tutta ed esclusivamente su una cosa sola (con risultati, quelli sì, geniali): nel suo caso, la comunicazione senza fili attraverso le onde radio. Campo che dominò, regalando all’umanità - lui che non era né scienziato né genio - l’invenzione probabilmente più decisiva del XX secolo.

Quello che è certo è che Marconi, il «Prometeo d’Italia», fu uno «spirito profetico». Detto in altro modo, uno che ci vedeva molto lungo. Piccolissimo, a otto-dieci anni d’età, aveva già la certezza, più che la fiducia, «di riuscire un giorno a far qualcosa di nuovo e di grande», come scrisse in una pagina autobiografica nel gennaio del 1937. E a proposito dei suoi maestri: «Si accorgeranno un giorno, osavo dire tra me, che non sono poi tanto sciocco quanto essi credono». Soprattutto ebbe sempre una precisa coscienza di quelle che sarebbero state le successive applicazioni della sua scoperta, destinate a ridisegnare la fisionomia del pianeta. A cento anni dall’assegnazione del premio Nobel - ottenuto nel 1909, quando il fisico bolognese aveva 35 anni - la «Fondazione Marconi», in occasione della mostra e del convegno che a giorni festeggeranno la ricorrenza, ha reso pubblico un documento apparso finora solo in maniera frammentaria su alcune riviste scientifiche, in inglese, lingua in cui fu redatto. Si tratta dello straordinario «testamento scientifico» di Guglielmo Marconi, ossia il testo del radiomessaggio che lo scienziato, per una conferenza sulla radiocomunicazione, trasmise da Roma a Chicago nel marzo del 1937, quattro mesi prima della morte, il 20 luglio, quando il mondo lo onorò con un tributo eccezionale: tutte le stazioni radio rimasero in silenzio per due minuti nei quali l’etere tornò a essere silenzioso come era stato fino alla sua rivoluzionaria invenzione. Uno scritto lucidamente profetico, in cui Marconi, sottolineando i limiti del broadcasting, cioè della comunicazione «a senso unico», preconizza il point-to-point, la radiocomunicazione mobile: «Noi abbiamo raggiunto nella scienza ed arte delle radiocomunicazioni uno stadio in cui le espressioni dei nostri pensieri possono essere trasmesse e ricevute istantaneamente e simultaneamente dai nostri simili, praticamente in ogni punto del globo - scrive il celebre fisico -. La radiodiffusione, tuttavia, con tutta l’importanza che ha raggiunto e i vasti campi inesplorati che restano ancora aperti, non è secondo me la parte più significativa delle comunicazioni moderne, in quanto è una comunicazione “a senso unico”. Un’importanza assai maggiore è legata, a mio parere, alla possibilità fornita dalla radio di scambiare comunicazioni ovunque i corrispondenti possano essere situati, sia nel mezzo dell’oceano, che sul pack ghiacciato del Polo, nelle piane del deserto oppure sopra le nuvole in aeroplano!». Quello che facciamo, oggi, con il cellulare.

Mezzi rudimentali a disposizione ma dotato di intuito straordinario, studi irregolari alle spalle ma visione chiarissima davanti a sé, Marconi seppe scorgere ben oltre la curvatura terrestre superata dal segnale radio che il 12 dicembre 1901 lanciò dalla stazione di Poldhu, in Cornovaglia, a quella di St. John, nell’isola di Terranova, dall’altra parte dell’Oceano, aprendo una nuova era delle comunicazioni. Marconi, poco meno di un secolo fa, vide con precisione quello che noi abbiamo iniziato a sognare confusamente appena l’altro ieri. «La peculiarità dell’uomo, la caratteristica che segna la sua differenza e la sua superiorità sugli altri esseri viventi, a parte la divinità della sua origine e del suo fine ultimo - scrive Marconi nel suo testamento - consiste, penso, nella capacità di scambiare con i suoi simili pensieri, sensazioni, desideri, ideali, preoccupazioni ed anche lamentele!». Esattamente tutti i sentimenti che miliardi di persone si scambiano ogni giorno da un telefonino all’altro, da un punto all’altro della Terra. Sperando che lo scienziato «dominatore degli spazi» si riveli profetico anche nel suo ultimo appello: «Nella radio abbiamo uno strumento appropriato per unire i popoli del mondo, per far sentire le loro voci, le loro necessità e le loro aspirazioni.

Il significato di questo moderno mezzo è così del tutto rivelato: una larga via di comunicazione per il miglioramento delle nostre reciproche relazioni è oggi a nostra disposizione; dobbiamo solo seguirne il corso in uno spirito di tolleranza e di comprensione solidale, pronti a utilizzare le conquiste della scienza e dell’ingegno umano per il bene comune».

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