Per la prima volta da quando esiste, la Tv di Stato ha teorizzato come cosa buona e giusta l’uccisione, per mano di un medico, di un paziente terminale al fine di far vivere altri malati. Ha cioè ipostatizzato ed elevato a regola morale il mors tua vita mea, la massima che più d’ogni altra dà voce all’egoismo umano. Siamo regrediti all’Alcesti, la tragedia di Euripide, al re di Fere che otteneva dagli dèi la grazia di far morire un’altra persona al posto suo.
È accaduto in prima serata, durante la fiction La terza verità, in onda di recente su Raiuno. Trama: il protagonista, un brillante neurochirurgo pediatrico dagli occhi celesti, scopritore di una cura contro una rara patologia, cittadino esemplare, padre premuroso e marito integerrimo, si trasforma in emulo di un serial killer per procacciarsi non meglio specificati «tessuti» indispensabili alla sopravvivenza dei piccoli ricoverati nel suo reparto. Segue per strada una paziente condannata da una prognosi infausta, cui restano solo poche settimane di vita, e la sventra. Facile no? Il fine (buono) giustifica i mezzi (cattivi).
Per carità, poi il luminare macellaio viene smascherato dalla moglie, un infermiere suo complice nel benemerito progetto si suicida (non ho ben capito se per il rimorso o per altri motivi) e i carabinieri portano via l’assassino con gli schiavettoni ai polsi, non prima che un comprensivo maggiore dell’Arma gli abbia accordato una dilazione di un paio d’ore per un ultimo, salvifico intervento chirurgico. Non c’è barlume di pentimento. Anzi, l’omicida rivendica fieramente l’altissima valenza etica del suo folle progetto di morte. E quando la telecamera indugia sui poveri bambini che senza quei «tessuti» avranno vita breve, il telespettatore è portato naturaliter a solidarizzare: embè, in fin dei conti che ha fatto di male il signor dottore? Ha accorciato di poco l’esistenza a una donna, che era comunque spacciata, per regalare una speranza a esseri innocenti che hanno tutto il diritto di affacciarsi alla vita. Quasi cristiano.
Non importava che il neurochirurgo avesse fatto strame del giuramento d’Ippocrate, il quale impegna il medico a «non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente». Importava che col sacrificio di una sola vita avesse salvato più vite. Come se la logica delle offerte speciali 2x1 potesse essere applicata non solo alle merci ma anche alle persone.
Lo sceneggiato della Rai ha certificato, in forma becera, una tragica evidenza che è da tempo sotto gli occhi dell’opinione pubblica. I malati vorrebbero essere curati e, sperabilmente, congedarsi da questo mondo il più tardi possibile; i medici preferirebbero invece, non appena le terapie si dimostrano inefficaci, rispedirli al Creatore con rito abbreviato: «dolce morte» o, quando proprio tocca, quattro coltellate. E se gli si può espiantare qualche organo prima d’affidarli alle pompe funebri, tanto di guadagnato.
Esagero? Una ricerca svolta da Consulcesi, associazione che assiste legalmente oltre 20.000 camici bianchi, ha accertato che il 52,7% di loro è favorevole all’eutanasia. Analogo risultato aveva dato, l’anno scorso, un sondaggio di Doctor News, bollettino quotidiano riservato alla classe medica: 51,7%. Un mese fa al congresso di Palermo dell’Aiom (Associazione italiana di oncologia medica) è emerso che il 56% dei 685 specialisti in tumori interpellati sull’argomento hanno detto sì all’eutanasia. Insomma, sono maggioranza.
Ma se ci si trasferisce sul fronte opposto, nelle camere dove l’umanità sofferente tira la vita con i denti e s’aggrappa alla speranza con la stessa forza del naufrago che afferra l’ultimo legno, ecco che la prospettiva cambia radicalmente: appena l’1,4% dei morituri chiede l’eutanasia. Il dato, impressionante, emerge dallo studio svolto su un campione di 142 pazienti allo stadio terminale degenti presso il St Vincent’s University Hospital di Dublino, illustrato all’Università di Pisa dal dottor Eoin Tiernan, specialista nel dipartimento di medicina palliativa dell’ospedale irlandese. E combacia perfettamente col risultato di una ricerca eseguita su un altro campione di 279 pazienti, affetti da cancro, pubblicata dalla rivista Health Psychology e realizzata dal professor Keith Wilson, epidemiologo canadese dell’Ottawa Health Research Institute: solo 14 malati terminali ogni mille vorrebbero che il medico facesse qualcosa per porre fine alla loro vita.
Poiché nel succitato sondaggio dell’Aiom il 15% degli oncologi ha confessato d’aver praticato talvolta l’eutanasia (dunque 150 ogni mille), risulta evidente la sproporzione numerica tra chi invoca la morte e chi è disposto a concedergliela. Pochi candidati per troppi esecutori. Traete voi le conclusioni. Giovanna Cavazzoni, fondatrice e presidente della Vidas, associazione che in 25 anni ha assistito 18.000 moribondi, tempo fa ha dichiarato: «Nessuno ci ha chiesto di potersene andare prima del tempo». Eppure, a sentir parlare i radicali e a leggere i giornali, sembra che nelle corsie d’ospedale non s’invochi nient’altro che questo.
I pazienti terminali soffrono sì per la malattia, ma soprattutto per lo stress psicologico, il principale fattore che li induce a chiedere di morire. E infatti la depressione presenta un’incidenza quadrupla rispetto al normale nei rari malati che invocano la fine accelerata dei loro giorni. «Ho passato sei anni in un ospizio alle Capannelle di Roma, ho accompagnato nell’ultimo viaggio 60 vecchiette. A ognuna chiedevo: hai paura? E la risposta era sempre la stessa: “Se tu mi tieni la mano, non ho paura”. L’eutanasia è una truffa.
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it
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