Quando la prammatica giustifica la grammatica

Caro Granzotto, con un certo stupore noto nei suoi scritti forme come «massì», «sennò» e «semmai» che, a onor del vero, lei alterna forse secondo l’umore con le più corrette «ma sì», «se no» e «se mai». Vorrà concordare con me che ogni volta lei maltratta la grammatica italiana non esimendosi dal maltrattare anche il vocabolario con gli arditi neologismi che produce in abbondanza (gli ultimi «tuismo» e «tuisti», riferito a coloro che apostrofano col «tu»). Di contro, registro la pressoché assenza nei suoi scritti della forma pronominale «costui» alla quale sembra preferire il più banale «questo». Non pensa che dovrebbe fare ammenda?


Caso mai «questi», caro Morgantini, non «questo». Tanto per mettere i puntini sulle «i». Deve credermi: il dimostrativo «costui» lo porto in palmo di mano e guai a chi me lo tocca, però deve ammettere che nell’uso e nel tempo ha assunto un significato vagamente peggiorativo. Negli interrogativi «Chi è costui?, Cosa vogliono costoro?» si sente il distacco, la freddezza, se non proprio il malanimo. Pertanto io, che sono buono come il pane, m’industrio a usarlo il meno possibile. Per venire ai «massì» e ai «sennò», essi appartengono a quella forma retorica che chiamasi mimesi dell’oralità. Fratelli germani, linguisticamente parlando, dei «casomai», «seppure», «laddove», «semmai», «sempreché» che a me piace (secondo l’umore, come lei correttamente osserva) scrivere purassai - eccone un altro -, separando la congiunzione dal rafforzativo. La simulazione del parlato ha esempi illustri nella letteratura italiana: la troviamo in Dante e Boccaccio, nella novellistica quattro-cinquecentesca, in Goldoni per finire a Gadda, a Pasolini (e a Camilleri, che ne abusa oltre il consentito). Quindi, per oggi niente ammenda: se non dalla grammatica, la mimesi dell’oralità è infatti legittimata dalla prammatica: l’importante è non eccedere e rispettare le regole del gioco.
Càpita infatti spesso che nel portare il parlato-recitato nel parlato-scritto si finisca per inciampare in qualche svarione, come, per fare un esempio, in questa espressione: «La maggioranza dei giornalisti ignorano il congiuntivo», dove a un soggetto singolare segue un verbo plurale, la classica «concordanza a senso» frequente nella lingua orale ma strafalcionica in quella scritta. Inutile poi tentare di riprodurre in forma scritta locuzioni come il «ci azzecca» alla dipietrese, reso sgangheratamente in quel «c’azzecca» che comunque la si giri viene letto «cazzecca». Infine, è fonte di inganni prescindere da elementi propri del linguaggio parlato non riproducibili in quello scritto. Mi riferisco all’intonazione, alle sfumature, al valore delle pause e al registro della voce che se è ironico o divertito conferisce alle parole un senso diverso da quelle pronunciate in tono grave o addirittura minaccioso. È il caso delle registrazioni telefoniche la cui trascrizione, sulla quale lavoreranno i pubblici ministeri, può in qualche caso risultare fuorviante.

E con questo mi sembra di poter concludere l’arringa a mia difesa, caro Morgantini. Cioè, no, resterebbe la faccenda degli «arditi» neologismi. Be’, vedrò di ravvedermi: d’ora in avanti solo neologismi tremebondi. Sì, abbraccerò il tremebondismo. Va bene così?

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