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Quando lo scrittore si trasforma in terrorista albino

Sette anni di galera, quella vera. Quella dove si sta in isolamento, dove si mangia in una ciotola per cani, quella dove si sentono cantare i condannati a morte che finiscono impiccati dopo mesi di inutile agonia, quella dove per giorni non si riesce nemmeno a vedere un raggio di sole.
Ecco cosa viene raccontato con raggelante lucidità ne Le confessioni di un terrorista albino (Alet, pagg. 288, euro 18, in libreria dal 19 maggio) del sudafricano Breyten Breytenbach, uno dei pochi, veri outsider della letteratura contemporanea. Questa «autobiografia carceraria» che sarà presentata al Salone del libro di Torino dall’autore (incontrerà il pubblico sabato 15), porta il lettore nel cuore dell’Apartheid, all’interno di gironi infernali dove tutto era violenza e razzismo, bolge dantesche che il mondo ha fatto in fretta a dimenticare, preferendo ricordarsi solo del Sudafrica dei diamanti e dei safari. Ma Breytenbach che quel regime l’ha vissuto sulla sua pelle pur essendo bianco e Afrikaner (quindi uno dei «favoriti» dal sistema di separazione razziale) ne fa un ritratto che rende palpabile a chi legge la follia di un totalitarismo etnico che ha isolato il Sudafrica gettandolo in un clima di paranoia e guerra civile strisciante. Le confessioni di un terrorista albino, infatti, fu vergato a caldo poco dopo la liberazione dell’autore, che era già uno dei poeti più letti del suo Paese, dalle prigioni di massima sicurezza di Pretoria (in Italia un piccolo editore lo pubblico nell’89).
Come questo facitore di versi che si dilettava di pittura finì in quel tritacarne che i boer chiamavano «difesa della sicurezza nazionale»? Membro di una famiglia influente che contava militari e giornalisti, la sua prima colpa fu quella di innamorarsi, in Francia, di una ragazza vietnamita e di averla sposata. Abbastanza perché non gli fosse più consentito il rientro in patria per violazione della legge sulla moralità. Quando Breytenbach decise di fondare «Okhela», un movimento anti-apartheid, e poi rientrò clandestinamente, fu arrestato ed etichettato come terrorista e traditore, anche se in vita sua non aveva mai torto un capello a nessuno. Fu a lungo interrogato senza la presenza dei suoi avvocati, sottoposto a pressioni di tutti i tipi, accusato prima di essere un agente del Kgb, poi di essere al servizio della Cia (si sa che gli Usa sono una nazione piena di «negri»). Non riuscendo a provare nulla di rilevante lo forzarono a una «confessione» con la promessa del pubblico ministero di una condanna a «soli» cinque anni di prigione. Il giudice gliene affibbiò comunque nove (Breytenbach ne scontò meno solo per le proteste internazionali).
Una discesa all’inferno in cui lo scrittore ha dovuto non solo imparare a sopravvivere in una «terra di nessuno» creata dalla paura del diverso, ma in cui è stato costretto a confrontarsi, giorno per giorno, con quelle guardie che lo consideravano uno strano traditore, un terrorista albino appunto.

Ma la forza di Breytenbach è quella che nella sua narrazione l’odio non c’è quasi mai, anche per gli Afrikaner c’è comprensione: erano prigionieri di se stessi. Un libro che dovrebbe far riflettere soprattutto chi qui da noi con la parola razzismo gioca, tirandola fuori a ogni piè sospinto, per sentirsi un eroe della democrazia. Gli eroi veri stavano da un’altra parte.

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