Quando troppa libertà porta in dono il cinismo

La Storia è sempre una questione privata e spesso la vita dell’Italia, per dirla ancora con Fenoglio, la si può narrare in un racconto «del parentado e del paese», dove sono i protagonisti più sfortunati o problematici, eppure non certo minori, a essere i più rappresentativi.
Accade anche in La sposa tradita di Adele Grisendi (Rizzoli, pagg. 234, euro 18,50), un racconto semplice che andrebbe però letto con attenzione, poiché il suo andamento analitico, a tratti sinuoso pur nella tensione sentimentale che lo innerva, ritrae - forse in modo più immaginifico degli altri libri dell’autrice, tra cui ricordiamo Bellezze in bicicletta, Baciami piccina, e il notevole L’amore mancato (tutti per Sperling & Kupfer) - il volto scabro di un’epoca, nello specifico i nostri anni Settanta, quando qualcosa, nell’assetto macroculturale e psicologico del nostro Paese, si ruppe per non riaggiustarsi più: chi era prigioniero di una situazione difficile se non asfittica, infatti, o volle uscirne nel modo peggiore o ne rimase prigioniero fino a spegnervisi all’interno come una candela. Sia detto per la politica in senso lato come pure per il matrimonio. Fu nel 1970, infatti, che venne approvata la legge sul divorzio.
La sposa tradita è la storia all’apparenza lineare di Laura, fin dall’adolescenza fidanzata con Luigi. I due si sposano. Lui la tradisce fin da subito: non con una storiella di sesso, ma con una «avventura» tutt’altro che leggera. Lo sfondo è quello dell’Emilia progressista, verrebbe da dire riformista; in primo piano ci sono Imola, Bologna, la costa adriatica. Luoghi percepiti come la punta avanguardista delle libertà, sociali e sentimentali e sessuali, ma che all’epoca, nonostante le varie «emancipazioni» in corso, non erano da meno della più fonda e bigotta provincia. Che cosa può fare, dunque, Laura? La vediamo pagina dopo pagina confidarsi con le amiche, rivolgersi a un detective, osservare clinicamente il marito, in un miscuglio di rabbia repressa ed esigenza di solitaria riflessione, la seguiamo nella sua ricerca di una spiegazione razionale a quello che le accade sotto il naso ma che ancora rifiuta, e poi eccola tradire Luigi a sua volta, col corpo ma non con la mente, in una sorta di tentativo meccanico di liberazione. E infine divorziare da lui.
L’ultima scena del romanzo - Laura e Luigi, da separati, fanno sesso nella dépendance di un albergo, con tanto di bottiglia di champagne à la Peppino di Capri, come in ogni fiction che si rispetti - può sembrare di maniera, ma è la più importante. In un clima psicologico gravato da un cinismo mostruoso, regalo ambiguo di una ritrovata libertà (o indifferenza) per Laura e di un’ingenua e patetica illusione di potere per Luigi, si compie la nemesi del loro divorzio, cioè si assiste alla fine concreta del dialogo tra due persone, che non rimarranno nemmeno più amiche.


Sotto le apparenze, sotto «i vestiti della Storia», il romanzo ci parla, nella sua crudezza, di cosa succede quando «la Legge» (dal «chiamo i carabinieri» al «ti denuncio» fino al «ti querelo» e al «divorziamo») prende il posto del dialogo, seducendo gli individui attraverso il fantasma della libertà: in modo impercettibile, succede - e l’abbiamo visto - che qualcosa nei rapporti umani viene perduto.

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