Quanti sorrisi con Ronaldinho Barcellona è l’isola del tesoro

Da Messi a Eto’o: squadra di fuoriserie. Diverte, ha tradizione, tanti trofei ma solo due coppe campioni

Tony Damascelli

Ci sarebbe poco da ridere osservando certe case e cose di Gaudì. Ma ci pensano i blaugrana del Barcellona, mes que un club, come sta scritto sulle loro camisetas, più che una società di football, per illuminare il porto e le ramblas. Fiesta grandiosa, ma con 109 feriti, 45 arrestati e una battaglia con la polizia. Questa è la squadra che ride, si diverte e diverte, il gruppo senza sponsor ma con i milioni di euro che corrono, con le gambe di Deco o di Giuly, di Eto’o e di Ronaldinho. Soltanto Franklin Rijkaard sembra sotto i mulini a vento del paese suo, con lo sguardo sempre sghembo, quasi di uno che si sia appena svegliato o stia sul punto di ronfare. Eppure, per capire che cosa è davvero questa squadra campione, basta davvero guardare i denti da coniglio di Ronaldinho, la sua chioma un po’ datata e tamarra, gli occhi come olive nerissime, il Brasile meno elegante ma più furbastro che ci sia. Campeon de liga e champions, è lo slogan riportato su un’altra maglietta che Puyol, il capitano con i capelli da putto rinascimentale, mostra alla «pena», ai tifosi blaugrana. Squadra di tradizioni antiche ma con due sole coppe d’Europa in argenteria, la prima contro la Sampdoria nel supplementare di Wembley, la seconda quella di Parigi che ha dovuto passare anche al controllo del metaldetector, non si sa mai, vergine fino alla meta.
E c’è da diventare scemi pensando che il Barcellona si è concesso il lusso, prima forzato e poi scelto, di rinunciare al fenomeno della pampa, Lionel Messi, il campione argentino che potrebbe essere il fiore più profumato del prossimo mondiale. Ecco, allora, che lo scenario del Barcellona è davvero spettacolare, come vuole la sua storia, soltanto ricordando Zamora, Kubala e Suarez, o Cruyff e Neeskens, Lineker e Koeman, poi andare a Maradona e Schuster, a Figo e Krankl, a Stoichkov, Ronaldo, Rivaldo, mammamia quanti sono per diciotto campionati vinti, ventiquattro coppe del re, cinque supercoppe di Spagna, quattro coppe delle coppe, due coppe di lega, tre coppe delle Fiere e due supercoppe europee.
Roba del passato, remoto quasi, perché il trionfo parigino sembra l’inizio di una nuova era per il club di Joan Laporta, il presidente che finalmente fa marameo ai rivali delle merengues, il Real Madrid alle prese con la crisi della terza età e prossime elezioni, alla ricerca del tempo perduto. Il Barcellona no, ha vinto le due ultime edizioni della Liga, l’anno scorso fu eliminato in champions dal Chelsea e da alcune interpretazioni arbitrali ma ha in garage le fuoriserie del futuro: Messi 18 anni, Iniesta 22, Valdes 24, Motta 23, Eto’o 25, Maxi Lopez 22, pulcini della chioccia Ronaldinho che a 26 anni ha una vita e una carriera da lucidare con l’argentil.
Il calcio che ingoia veleni e sputa rospi deve godersi quest’isola del tesoro, non soltanto finanziario. La Spagna ha vinto le due coppe europee con il Siviglia prima e il Barcellona dopo. Non si tratta di episodi e circostanze fortunate.

È una scelta di repertorio, da noi i muscoli, la tattica (e altro), da loro lo stile e la tecnica. Zapatero è in cima alle ramblas, ha vinto in casa e in Europa, il re e la regina per una notte hanno tradito il Real. Arriba España.

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