Magari quando scende in piazza il popolo della destra non è così disciplinato. Non sa «far massa», tende a sfilacciarsi ignorando le regole del perfetto manifestante di scuola comunista, che ha il suo passo standard, il suo spazio vitale codificato da lunga esperienza marciaiola. Però, giunto alla meta, in quanto a oceanicità il popolo della destra non sfigura e anzi glie le dà, a quello della sinistra. Che si distingue, poi, per l'uniformità antropologica: molte barbe da intellettuale, molte sottanone da girotondine, non poche innocenti creature a cavacecio, come si dice a Roma, dei babbi o marsupiate in grembo a mammà, mute di cani (di razza) col foulard etnico al posto del collare, molte Tod's, molte cosucce di Prada o Krizia e una infinità di cachemire. Ieri, in piazza San Giovanni, l'unico cachemire era quello che il ministro Ronchi s'era gettato alla sanfason sulle spalle (Ronchi è bravo e simpatico, ma dia retta: se teme il colpo di freddo, meglio che indossi la classica e benemerita maglietta di lana). Al popolo della destra non piace la divisa né il sembiante unificato. Il popolo della destra non si maschera: per usare un termine molto popolare, non se la tira. Abbiamo visto facce da commerciante e da casalinga, da impiegato e da artigiano, da professionista e da artista, da maestra e da precario, da partita Iva e da salariato. E nessuna assomigliava alla faccia collegiale del marciatore e della marciatora di sinistra: quella sussiegosa di chi si sente antropologicamente diverso, quella supponente di chi dice d'aver letto tutto Pavese e tutto Camilleri.
Non è solo la platea a distinguere la manifestazione popolare della destra da quella della sinistra. C'è il palco. Anche nella kermesse piazzaiola più informale il palco di sinistra sente tuttora il contagio - il sangue non è acqua - della tribuna della nomenclatura comunista in Piazza Rossa, ai bei tempi delle mastodontiche e bellicose sfilate del primo maggio. Vi regna quell'atmosfera tetra, plumbea che nemmeno la cadenza romagnola di Per Luigi Bersani (non parliamo del mollaccismo di Veltroni o dei pedagogici «come dire» di D'Alema) riesce a ravvivare. Se poi ci si riferisce all'apparenza, un disastro. Chi più chi meno, i mammasantissima della sinistra pare abbiano seri problemi di digestione - almeno questo si legge sui loro volti -, sembrano tutti affetti da gastriti e ulcere duodenali che nemmeno bidoni di Maalox riescono a lenire. Piegati dal greve fardello di far sorgere - una buona volta - il sol dell'avvenir i presenti sui palchi della sinistra trasmettono pessimismo, sconforto. Annunciano, non foss'altro che con il loro corruccio democratico, stagioni di sudore, lacrime e sangue.
Al contrario, ieri il palco di San Giovanni, il palco del Popolo della Libertà, era incredibilmente bello e gioioso. A parte Maurizio Gasparri che neanche avesse perduto tra la folla il cellulare inalberava un'aria imbronciata da far paura, non s'era mai visto un parterre così fresco, gioioso, positivo e vitale. Glamour, si potrebbe dire, per la presenza di ministri e ministre di piacevole e simpatico vedere (perfino Tremonti, che pure gode fama di non esserlo, su quel palco risultava amabile). Sentire uno stonatissimo Ignazio La Russa intonare (e insistere, poi, nel cantarlo tutto) l'inno nazionale, non ha certo destato stupore. Ma vedere una sorridente Letizia Moratti, generalmente molto riservata e schiva, dare il tempo agli sbandieramenti tricolori, be, è stata una sorpresa. Renata Polverini, poi, deve aver fatto suo l'elettorato giovanile mostrando di conoscere una per una le parole di ogni canzone diffusa dagli altoparlanti. Meglio d'un comizio, a conti fatti. Un gran palco, insomma, giusto premio per il popolo della destra che non ha voluto mancare all'appuntamento.
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