"Quegli anni della contestazione vissuti in caserma"

Intervista a Rita Dalla Chiesa che visse il '68 da figlia di carabiniere. "Non mi sento in colpa per non aver protestato. Ho scelto altri valori, come la solidarietà"

"Quegli anni della contestazione vissuti in caserma"

Rileggere il ’68, l’anno principe della contestazione, attraverso le parole dei «non allineati», dei testimoni che vissero quel periodo da una diversa prospettiva: è questo l’obbiettivo della serie di interviste avviate dal Giornale, serie che si è aperta con Massimo Fini ed è poi proseguita con l’intervista a Vittorio Messori, il ricordo di Mario Cervi, le parole di Santo Versace e la testimonianza di Luigi Negri, il vescovo milanese di San Marino e Montefeltro. Oggi quegli anni invece rivivono nel racconto di Rita Dalla Chiesa, conduttrice televisiva e figlia del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa assassinato dalla mafia il 3 settembre 1982.

Roma - Ci fosse un trombettiere in pensione che, anche solo per simpatia, prendesse l’impegno di venire sotto questi balconi di Vigna Clara a suonare la sveglia e il silenzio, alle ore canoniche, Rita Dalla Chiesa potrebbe allestire ogni giorno con poco il suo privatissimo film della memoria: quello della giovinezza spensierata, gaia, felice. Quando lei - bella, biondissima, spavalda - attraversava il cortile della caserma Buonsignore, i libri sottobraccio; e c’erano fior di appuntati, di brigadieri, di marescialli che un po’ per scherzo, certo, scattavano sull’attenti, sbattevano i tacchi e portavano la mano alla visiera,mentre con gli occhi, ma senza parere (e sempre che non ci fosse il signor colonnello, nei paraggi) si mangiavano quel fiorellino che andava e veniva dalla porta carraia,mormorandoamezza bocca un «miiizzica...».

Il fondale c’è già. I limoni e i mandarini sul terrazzo; i pini altissimi che punteggiano la strada e il quartiere; il cielo di Roma, che si presta alla perfezione.

Palermo, fine anni Sessanta. Anzi, proprio il ’67. Il colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa,comandantedella Legione Carabinieri, dà filo da torcere ai picciotti,maanche in casa non scherza. Severo, sabaudo nel cipiglio e nei costumi, «ma anche di una tenerezza estrema con noi ragazzi», ricorda lei, Rita. «La forma, lo stile, il comportamento. Questioni sulle quali non si transigeva. Per dire: a me piaceva la minigonna. Ma essendo la figlia del comandante, ero costretta a infilarmela sotto un gonnellone che poi, strada facendo, mi sfilavo».

Un’altra faticosa mattinata sotto le telecamere di Forum, la fortunata trasmissione di cui lei è conduttrice e anima. Oraè qui, nell’accogliente salotto della sua bella casa in cui il rosso predomina, a far vagare i pensieri e a distribuire carezze sulla pancia di Pedro, uno dei suoi quattro cani che essendo un po’ sfigati, quanto a certezze sulla razza, sono stati risarciti dalla padrona con nomi altisonanti: Giulio Cesare, Penelope, Flavia.

Rita Dalla Chiesa alla vigilia del Sessantotto è dunque a Palermo. A Milano aveva studiato dalle Marcelline di via Quadronno. A Palermo, per l’ultimo anno di liceo linguistico, fu un istituto retto dareligiosi, l’«Hybla». «A Milano frequentavamo gli intellettuali, i giornalisti, i grandi borghesi.APalermo la scena cambiò radicalmente, e mi trovai immersa nella vecchia nobiltà isolana, quella del Gattopardo. C’erano i Lanza, i San Vincenzo... Si andava in questi palazzi del centro che all’esterno erano decrepiti; ma dentro vedevi saloni bellissimi, affreschi, mosaici, raccolte di ventagli del ’700, camerieri in livrea...».

Che volete che ne sapessero, gli studenti di Palermo, di quel che sobbolliva nelle aule dei licei e della Statale, a Milano? Da quella galassia che si pensava rivoluzionaria, e andava agitando il libretto rosso di Mao arrivavano parole d’ordine incomprensibili: il problema delle masse, e l’emancipazione, e lo sfruttamento, e il centralismodemocratico, l'antifascismo militante e la Cina, il Vietnam, le mazzate a chi la pensava diversamente e i fiori nei nostri cannoni. «Il Sessantotto ce lo raccontava Nando, mio fratello, che era rimasto a Milano a studiare alla Bocconi. Melo ricordo elettrizzato, entusiasta, compreso nella parte, pieno di ardore. Per me e Maria Simona, mia sorella, Nando divenne un mito. Miricordo che da mio padre non voleva una lira. Guadagnava qualche soldarello spalando la neve, vendeva fiammiferi allo stadio, mangiava scatolette».

Figuratevi il generale (ancora colonnello). Guardava quel figlio degenere, con l’eskimo e i capelli lunghi, comesolo un carabiniere di Saluzzo avrebbe potuto.

Fu allora, mentre a Milano ci si facevano grandissime seghementali col plusvalore, e Horkheimer, e il leninismo, e il trotzkismo, i «cioè» e «nella misura in cui», che a Montevago e a Gibellina la terra prese a tremare di brutto, e il Belice andò a catafascio. Rita Dalla Chiesa il suo Sessantotto a rovescio lo fece lì, tra le macerie di Gibellina distrutta dal terremoto, scoprendo - lei e le sue amiche baronessine, insieme con tanti ragazzi e ragazze senza cognomi importanti - due sentimenti, due stati d’animo che da allora non l’hanno più lasciata: volontariato e solidarietà.

«Facevamo incetta di indumenti: cappotti, giubbotti, maglie di lana, perché era gennaio; e poi pacchi di viveri. E si partiva tutti insieme, imolto ricchi e i molto poveri ». Una grattatina soprappensiero a Pedro, una mano che scosta un ciuffo di capelli biondi, poi Rita riprende il filo dei pensieri. «Ho ancora davanti agli occhi certe immagini di quei giorni: un maglioncino giallo che esce da un cassettone sventrato. Un mozzicone di muro piastrellato di blu e verde. Una Madonna ancora intatta, sotto la campana di vetro. Le vecchie raccolte nei prefabbricati, col rosario in mano. Ecco. Io dico che il ’68 a Gibellina mi ha insegnato e segnato più di quanto non abbia fatto la piazza con quelli che sognavano di cambiare il mondo e intanto sfasciavano anche quel che di buono andava serbato».

Se li ricorda ancora, Rita Dalla Chiesa, gli anni in cui se non eri di sinistra «eri nessuno. Una non persona, un’entità priva di valore». Se li ricorda ancora, i volti dei suoi amici intellettuali, gli studenti di filosofia, di psicologia, che non si fecero vedere al suo matrimonio, nel ’70, solo perché andava sposa a un capitano dei carabinieri, quel Roberto Cirese che sarebbe poi diventato vice comandante dell’Arma. D’altronde, quelli erano gli anni in cui i carabinieri non andavano molto di moda. C’era quel simpatico slogan, ricordate? Diceva: «Camerata, basco nero, il tuo posto èal cimitero ». In alternativa: «Se vedi un punto nero spara a vista. O è un carabiniere o è un fascista».

«Ancora oggi - dice Rita - i miei amici di sinistra miaccusano di non aver preso parte a quella stagione. Ma io questo senso di colpa proprio non riesco a farmelo venire. Allora ribatto: io, in quegli anni, ho imparato davvero una lezione: la generosità, l’altruismo, la solidarietà. Ancora oggi mi occupo dei bambini disadattati del villaggio Don Bosco, quello di donBenedetto, a Tivoli.E sono stata per anni madrina dell’Associazione Orfani Carabinieri. Voi, invece? Mi dite che avete fatto dopo aver giocato alla rivoluzione?».

Nessuno ebbe sentore di quel che sarebbe accaduto dopo. «Neppuremio padre», dice convinta. «La guerra di mafia del ’69, la scomparsa di Mauro De Mauro, e poi il salto nel terrorismo, quando papà era ormai a Torino. La cattura di Curcio, di Franceschini. Io che porto mia figlia Giulia a scuola, nel ’75, scortata dai carabinieri. E mia madre chemorì nel ’78, consumata dall’angoscia, vittima dico io del ’68». Rita Dalla Chiesa si passa una mano sul viso, come per scacciare vecchi fantasmi. Dalla vetrata che dà sul balcone, lasciata aperta, entra unfilo d’aria che sa già di primavera. A proposito di primavera: l’amore libero, il femminismo, il riscatto delle donne: non doveva essere una specie di primavera, per l’altra metà del cielo? «Doveva - sospira Rita - Le battaglie per l’aborto e il divorzio sono state sacrosante. Ma guarda come è ridotta oggi la famiglia, e l’abuso che si è fatto del divorzio. Io stessa, se non fossi stata contagiata dallo spirito dei tempi, non mi sarei separata da Roberto. I motivi che allora mi indussero a sfasciare la famiglia mi appaiono oggi risibili. Il fatto è che non abbiamo avuto la forza, la tenacia, e la voglia di reggere alla fatica che un progetto comporta». Negativo, a Rita Dalla Chiesa, pare anche il saldo del femminismo, i cui eccessi hanno finito per stralunare i rapporti tra maschi e femmine. «Col risultato che i cinquantenni di oggi temono come una sventura un rapporto con una donna della loro età. Le conoscono, le temono, hanno già pagato pegno». Passò il criterio, in quegli anni, che per farsi valere le donne dovevano fare gruppo, classe. «Io invece ho sempre creduto nella donna-persona. Eguardale oggi. Oggi, le donne che hanno raggiunto il potere sono peggio degli uomini. Arroganti, inesorabili. Peggio del peggio che ostentavano gli odiati maschi. Uno strapotere, un’arroganza che continua anche oggi, quando le donne si separano».

A Forum, Rita se n’è sciroppate tante, di storie così.

«Uomini ridotti con le pezze al sedere, che pagano a vita un matrimonio sbagliato, costretti a versare alimenti a donne che ci si sistemano per benino, come avessero fatto un investimento. Col che, arrivederci alla tanto conclamata parità e dignità della donna».

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