Quegli omissis sulle Ardeatine

Pierangelo Maurizio

Chi l’ha detto che non esiste il dio dell’Auditel, che non c’è stata una giustizia dell’etere nel flop di Don Pietro Pappagallo - La buona battaglia, la fiction di Raiuno sulle Fosse Ardeatine? Il regista Gianfranco Albano spalleggiato da Sandro Curzi ha accusato la Rai di non aver adeguatamente lanciato il capolavoro, se l’è presa con la concorrenza sleale di Milena Gabanelli e il suo Report su Raitre. Suvvia, signor Albano: la Gabanelli è una bravissima collega ma pensare che possa far ombra a una fiction tanto strombazzata da Aldo Cazzullo sul Corriere, dai tg e giornali radio, è risibile. Forse la gente ha solo sentito odore di furbata e ha usato il telecomando. Punto e basta.
Sandro Curzi ha parlato di «gravi errori tecnici» da parte della Rai nel non aver blindato «un bellissimo film». A me invece sembra grave altro. A quanto mi risulta, alla Rai era stato presentato un primo progetto che voleva ricostruire la vicenda delle Ardeatine su basi stroriche serie. Ma è stato cassato. E la scelta con l’oculatezza che contraddistingue in frangenti incerti viale Mazzini è caduta su Don Pappagallo. Certo, Don Pappagallo: Roma, i nazi feroci e il prete buono trucidato alle Fosse Ardeatine. Comodo, facile.
Ne è venuto fuori un papocchio tecnicamente povero girato in una Roma surrealmente deserta (non era il caso di spendere qualche euro in più in comparse?). Soprattutto inutile. Ancora una volta infatti - per l’ennesima volta - si è evitato come la peste il nodo fondamentale (appena abbozzato con qualche immagine): via Rasella. Fondamentale non solo perché, com’è ovvio, non ci sarebbe stata rappresaglia tedesca senza attentato. Ma soprattutto perché si porta dietro la domanda: per quale ragione i Gap comunisti vollero a tutti i costi un attentato che non aveva alcun senso militare, all’insaputa del Cln e contro il volere di tutte le altre forze della Resistenza. Ma come mai, ma perché?
Per non rispondere la fiction Rai ancora una volta ha rubato l’anima, l’identità politica ai martiri delle Ardeatine. Che è come ucciderli due volte. I martiri sono il colonnello Montezemolo, capo del Fronte militare clandestino, e le decine di ufficiali e militari badogliani sprezzantemente bollati dal Pci come «attendisti». I comandanti e i militanti di Giustizia e libertà, Aladino Govoni, il figlio del poeta Corrado, e i suoi uomini di Bandiera rossa, un gruppo eterodosso composto da ufficiali democratici (ma c’erano anche qualche anarchico e qualche liberale) che vagheggiava la creazione a Roma di una repubblica autonoma e popolare, in assoluto il più numeroso alle Ardeatine. Tutte formazioni che per i motivi più disparati erano contro la strategia del Partito comunista.
Certo tra le vittime della ferocia nazista c’è anche il professor Gioacchino Gesmundo, iscritto al partito, su cui la fiction insiste molto. Alla Rai si dimenticano però di dire che Gesmundo con il partito era in odor di eresia fin dal dicembre ’43-gennaio ’44, perché ai suoi allievi spiegava tanto il pensiero di Lenin che quello di Trotskj.
Per settimane prima di via Rasella l’Unità clandestina condusse una campagna feroce contro quelli di Bandiera rossa definiti «strumenti di Goebbels» e avvertendo che se a Roma fosse successo qualcosa di grave si sapeva tra quali «provocatori» cercare i responsabili. Le copie dell’Unità si trovano alla fondazione Gramsci: autori e produttori della fiction Rai avrebbero forse potuto darci una scorsa. Ma sono tutte cose che anche Curzi conosce benissimo.
E fa sorridere - se non ci fosse da piangere - la scena in cui il traditore viene ucciso dai compagni. La storia delle complicità, dei baratti inconfessabili, è un po' più... complicata. Addirittura il segretario del Pci a Roma, Giulio Rivabene, cioè l’uomo che fece entrare nel partito il giovane Rosario Bentivegna (il gappista che a via Rasella accese la miccia), era un informatore dell’Ovra, la polizia politica fascista: e non fu giustiziato dai compagni ma dopo la guerra tornò al suo lavoro di tipografo all’Unità. I documenti sono all’Archivio di Stato.
Il vero sfregio però della fiction Rai è un altro. Il regista Albano, sulle ragioni del flop, è riuscito a dichiarare. «Non so se davvero non c’entri la politica. Certo, il mio è un film antirevisionista, scomodo». Ecco, in una delle ultime scene si vede la brava partigiana che a via Rasella poco prima dell’esplosione allontana un gruppo di bambini. Così la Rai, 62 anni dopo, è riuscita a cancellare ancora una volta perfino la memoria di Piero Zuccheretti, morto a 13 anni senza ombra di dubbio tranciato in due dalla bomba dei Gap, insieme a chissà quanti altri civili di cui non sapremo mai il nome. Ed è, semplicemente, indecente. Indecenza doppia visto che a veicolarla è la Tv di Stato e con i soldi di tutti.
pierangelo.

maurizio@alice.it

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