Quei capolavori a basso costo che sono ancora un business

Nella società liquida, che ci liquida sempre più in fretta, qualcosa resta a farci da frangiflutti, almeno nel nostro privatissimo immaginario. E mentre cineasti e produttori, tecnici del suono e maestranze diverse lamentano l’assenza dello Stato nei processi creativi della cineindustria (il che è un ossimoro: creare non significa dipendere dal controllo centrale), potremmo festeggiare il compleanno di due film per molti versi esemplari, che ancora si vedono con piacere e si vendono (in DVD) come noccioline. Si tratta di Psycho,thriller magistrale del mago del brivido Alfred Hitchcock e di Fino all’ultimo respiro (o About de souffle, come amano dire i cinefili più eleganti) di Jean-Luc Godard, capostipite della Nouvelle Vague.
Era l’estate del 1960 e nelle sale europee e Usa uscivano questi due capolavori in bianco e nero, che sommavano molti pregi: ne è prova il loro continuo remake, puro surrogato dell’irripetibile. Così, alle prefiche, che hanno smesso di girare, perché papà Stato non caccia più un euro per finanziare raccontini realistici («Hitch» e Godard avevano orrore del realismo e restano maestri), si potrebbe consigliare un’occhiata al budget di Psycho: girato con 800.000 dollari, il modello di ogni morte sotto la doccia - la celebre sequenza, 45 secondi di terrore, viene cliccata di frequente su YouTube - incassò 40 milioni. Bel colpo per le Shamley Productions e per la Paramount, distributrice della pellicola candidata a quattro Oscar. Poi, quel tirchio di Hitchcock prese la stessa troupe televisiva, che gli curava la serie Alfred Hitchcock presenta (invano Maurizio Costanzo cercò d’imitarne l’atmosfera tesa, in una sua trasmissione) e la mise sul set di Psycho con una diva, Janet Leigh (faceva Marion, seducente impiegata, che scappa da Phoenix col malloppo della sua ditta: veramente moderno) e un giovane agitato, Anthony Perkins (era lo psicotico Norman Bates, killer delle donne che lo attraevano). Fu subito culto? Non proprio: all’inizio, pubblico e critica con un occhio erano attratti da quella donna nuda, ladra e vittima, nel momento in cui si chiude nel box doccia a casa Bates, ma con l’altro, ipocritamente s’indignavano per quello sciacquone del WC tirato in diretta (fu la prima volta), per quella nudità e quel coltello, che però non si vedevano, ma s’immaginavano con intensità insostenibile. Tre sequel 1982, uno spin-off e un remake di Gus Van Sant la dicono lunga sull’impatto emotivo di quel classico del brivido, basato sui giochini della psiche, oltre che sull’omonimo romanzo di Bloch. Senza contare che Il silenzio degli innocenti, altro film ricordevole, discende da Psycho.
«Ho giocato a dirigere gli spettatori esattamente come si suona un organo», disse il regista, che abbondò in simbolismi spiccioli (come il teschio della madre di Norman, sulla sedia girevole), usando cioccolato fuso al posto del sangue. La fantasia al potere c’era se un thriller a basso costo e non sofisticato, è ancora culto, mezzo secolo dopo: per la rivista inglese «Total Time», la morte sotto la doccia è la miglior sequenza di morte mai vista. Se con Psycho sulla scena dei tempi successivi alla Guerra Fredda irrompeva una miscela esplosiva di eros e morte, desiderio e paura, con Fino all’ultimo respiro, commedia drammatica in bianco e nero, con soggetto di François Truffaut, affiorava l’ansietà, pronta a rompere ogni schema di vita borghese. Non a caso Susan Sontag paragonò l’eversività del film ai cambiamenti apportati, in letteratura, dai romanzi di Joyce. Anche qui, il budget basso aiutò a partorire la magnifica scena in cui Jean-Paul Belmondo (il ladro Michel) e Jean Seberg (l’amica Patricia) camminano per gli Champs-Elysées, ripresi da una cinepresa nascosta in una bicicletta.

E set improvvisati e carrellate senza binari… Si dirà: ma da noi, quando c’erano i generi, i film der Monnezza finanziavano i film impegnati. Adesso, finiti sia i Fantozzi sia il cinema civile, guardare a un paio di compleanni eccellenti serve a ricominciare dalle idee.

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