Quei giorni di caccia al Duce Fuga e cattura di un dittatore

Il periodo dal ’43 al ’45 è la nostra Hollywood nazionale, una riserva collettiva di immagini, racconti e valori oggi scomparsi ma che hanno ancora un loro fascino retrò, in particolare se trasfigurati sul grande schermo, per esempio da Carlo Lizzani. Certo non vi troveremo - come nella Hollywood originale - pink gin, amori transatlantici sulle linee Cunard, savoir faire e tuxedo e strass, ma pane e salame, vino cattivo, camionette militari, partigiani sporchi, violenza inconsulta e mutandine femminili abbandonate in fretta in cascinali a mezza costa sul lago per andare a cercar, lì a qualche metro, la bella morte, magari insieme al proprio Duce. Non si può dire che quanto a tragedia e poesia a quel tempo ce la siamo cavata male.
Uno dei più grandi cronisti e storici di questo breve e intenso periodo - basterebbe citare il suo imperdibile Roma 1943, forse superiore a Kaputt di Malaparte - è Paolo Monelli. Oggi Mursia ripubblica il suo Da Milano a Dongo. L’ultimo viaggio di Mussolini (pref. di Beppe Benvenuto, pagg. 122, euro 10), uscito nel 1965 come lungo articolo su «Storia illustrata». È il racconto, in uno stile vertiginoso pur nella compostezza, dei giorni finali del Duce, e ci sarebbe di che meditare.
Le quindici del 25 aprile 1945. Il cardinale Schuster riceve all’Arcivescovado di Milano un uomo dal volto disfatto, «inebetito dall’immane sventura», come racconterà poi nelle sue memorie. Lo accoglie «con carità episcopale», gli offre un bicchierino di rosolio e un biscotto. Mussolini è un momento abbattuto, il momento dopo indignato e focoso. È lì che apprende da un dispaccio che i tedeschi sono disposti ad arrendersi: «Ci hanno sempre trattato come servi - commenta - e alla fine ci hanno tradito». Elenca le umiliazioni subite, si infervora, promette vendetta, decide per un proclama alla radio - forse non tutto è perduto, anche se partigiani e fascisti già combattono alla periferia della città - ma poi ricade in una svogliatezza inerte. Al crepuscolo, lo convincono a partire per Como.
Sale in auto con un mitra a tracolla, circondato da gerarchi, molti dei quali, non diversamente dai tedeschi, lo tradiranno. In coda a tutte le vetture, l’auto con Claretta Petacci, che era accorsa dal Garda per stargli vicino. Giunto sul lago, il Duce scrive le ultime lettere alla moglie Rachele. Il mattino dopo si dirige verso nord per tentare, in qualche modo, di varcare il confine svizzero, mentre ascolta alla radio il generale Cadorna ordinare ai partigiani di dargli la caccia.
Tuttavia Mussolini cambierà spesso idea in quelle ore concitate e esauste: forse tremila camicie nere di Pavolini lo scorterenno sino allo Stelvio; forse dal piccolo campo di aviazione di Chiavenna potrà partire per la Baviera; forse i tedeschi lo proteggeranno da Menaggio fino a Merano. I suoi ultimi giorni sono tutti un saliscendi disperato lungo la costa occidentale del lago di Como, fino a quando la carovana di fuggiaschi non viene fermata sulla piazza di Dongo: i partigiani della 52ma brigata garibaldina vogliono fare una perquisizione. Uno di loro, Giuseppe Negri, non crede ai suoi occhi. Si volta verso un compagno e dice: «Bill, ghè chi el crapun». Si avvicinano entrambi a un uomo tozzo e pallido che fa finta di dormire, avvolto in un cappotto tedesco, l’elmetto calcato in testa. «Benito Mussolini!» urlano. Il Duce ha un sussulto.
Lo portano a Germàsino, tra i monti. Lì, il partigiano Neri conosce una famiglia fidata: occorre proteggere il Duce da coloro che vorrebbero una giustizia sommaria. La brigata ha ricevuto ordine che se il Duce tenta di fuggire, devono lasciarlo andare, anziché fargli violenza: chiaro segnale che lo si voleva vivo, pronto per un tribunale popolare. Adesso bisogna solo trasferirlo senza farlo cadere nelle mani degli Alleati. Dopo aver raccolto Claretta, che da Dongo continuava a chiedere di vedere Benito, due auto corrono lungo la tortuosa strada del lago. Mussolini è nella seconda, stretto tra i partigiani Gianna e Pedro. Moltrasio, Bonzanigo, infine Azzano: i paesi sfilano uno dietro l’altro. Arrivano «dalla Lia», una casa di contadini, dove dormono per la notte.
La mattina dopo - «chiara, limpida, i monti lavati dal temporale notturno», come racconta Monelli - si fa colazione con polenta e latte. Mandati dal Comando Generale di Milano con pieni poteri, giungono sul posto il colonello Valerio e il partigiano Guido. Si fanno consegnare Mussolini, poi Valerio sale nella stanza e prendere Claretta, che si attarda a cercare qualcosa tra le lenzuola. «Le mutandine...» «Non pensarci!» le urla l’uomo. Spingono il Duce e la donna su una millecento, scendono a valle fino al muretto di cinta di villa Belmonte. Li fanno scendere.

Claretta, il volto rigato di lacrime, chiede a Benito: «Sei contento che ti ho seguito fino in fondo?» Di solito, frasi così si finisce col dirle a qualcuno a cui non gliene importa nulla, ma i testimoni confermano di come Mussolini - sentendo partire le scariche dei mitra - abbia alzato il braccio per proteggerla.

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