Nonostante il profilo internazionale di primo livello - chief curator a Chicago, già direttore della Biennale di Venezia, attualmente in carica alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino e alla Biennale del Whitney di New York - come tutti gli italiani nostalgici Francesco Bonami ama a tal punto il suo Paese da non riuscire a staccarsene, neppure fosse il cordone ombelicale che lo teneva legato alla sua mamma. Ha un bel dire, mentendo, che piuttosto di tornare nel Bel Paese in pianta stabile si rimetterebbe a dipingere: dietro il glam e il vestito nero del curatore internazionale si nasconde a fatica un uomo che adora le polemiche, sguazza nelle beghe del nostro piccolo cortile, prendendosela con politici, funzionari e colleghi alla stregua di un moderno Don Chisciotte fustigatore del brutto. Insomma, ci fosse una riunione di condominio dell’arte, “sor Checco” da Firenze farebbe la parte di quello che ti rompe i maroni perché le serrature non sono state cambiate e il portone resta aperto così ti mettono la pubblicità in buca.
Detto questo, Francesco Bonami è molto più simpatico nella versione strapaese, che lo rende più simile a Sgarbi (ma senza il talento affabulatore di Vittorio) che non a Celant, risultando in fondo un vecchio reazionario in stile Jean Clair, ormai fuori dal dibattito sul contemporaneo trend, appannaggio di giovani critici quali Gioni, Birnbaum e Bellini. Il suo nuovo Si crede Picasso (Mondadori, pagg. 116, euro 17), si legge d’un fiato e a tratti diverte molto. L’ipotesi che sottende il libro è che vi sia una differenza enorme tra i pochi veri artisti, tutti famosi e costosi, dalla miriade di impostori, falsi, ciarlatani, ovvero la più parte della fauna in giro per il mondo. In fondo non ci sarebbe molto da obiettare, se non che la compilazione della play list presenta qualche strano vizio di fondo.
In cima alla hit parade stanno Damien Hirst, Maurizio Cattelan (con qualche riserva, meno male), Bruce Nauman, Gilbert&George, Louise Bourgeois, Jackson Pollock, il suo amico Rudolf Stingel, altoatesino diventato famoso a New York, Alighiero Boetti, Charles Ray, supportato dal suo sponsor Pinault di cui non potrebbe proprio dir male se non a rischio stipendio, il monumentale videoinstallatore Doug Aitken da lui portato alla ribalta. Nessuna sorpresa, anzi è frequente la ripresa persino letterale di passaggi già espressi negli altri suoi saggi. Un terzo capitolo fondamentalmente pleonastico.
Trasgressivo e irriverente, è il Bonami che convince di più quando prende di mira alcuni mostri sacri, come il guru dell’Arte povera Michelangelo Pistoletto, accusato di ripetersi senza requie dai lontani anni '60, come Shirin Neshat, che se non fosse stata iraniana forse non sarebbe neppure diventata un’artista; addirittura il padre di tutti i concettuali, il tedesco Joseph Beuys, finalmente ridimensionato da quel ruolo di guida suprema dell’arte sciamanica che ce lo rende francamente insopportabile. Ha ragione da vendere il Nostro quando smitizza l’esagitata Vanessa Beecroft, rea di avere spogliato migliaia di ragazze senza mai farci provare un brivido d’erotismo, o nel segnalarci l’eccesso tecnologico di Bill Viola, tanto stupefacente quanto mortalmente noioso.
Difficile essere d’accordo sulla svalutazione di Francesco Vezzoli, ma sappiamo che tra i due non corre buon sangue e il fiorentino Checco abituato da sempre a disfide all’ultimo sangue tra Guelfi e Ghibellini lì non sente ragioni. Tra i peggiori non manca mai di citare i pittori degli anni ’80, giusto per dare l’ennesima stoccata al suo acerrimo nemico Achille Bonito Oliva. Julian Schnabel finisce per ridursi a un ciccione in pigiama, dimenticandosi quanto l’americano sia diventato bravo da regista di cinema. Enzo Cucchi incarna la pars pro toto della Transavanguardia, «il Leopardi del carboncino che si è rovinato volendo diventare l’Hemingway del pennello». Sul più recente fenomeno di moda, il misterioso graffitista Banksy, Bonami esprime riserve condivisibili: «Paladino dell’arte democratica, è invece diventato il re del facsimile mediocratico».
Convince decisamente meno la sua insistita battaglia contro artisti non di primo livello, quasi sempre italiani, che diventano il bersaglio preferito di scherni talora un po’ troppo sopra le righe. Che senso ha prendersela con Giuliano Vangi, accusato di produrre brutture archetipiche, quando lo scultore conduce una vita appartata e parallela rispetto al supersistema dell’arte cui Bonami è abituato a genuflettersi? Sbertucciare Arnaldo Pomodoro (sempre lui, in tutti i libri!), un classico appartenente a un’era ormai lontana? Scagliarsi contro il figurativo Mitoraj e l’illustratore Folon, responsabili di aver perseguito un’idea d’arte popolare alla portata di tutti, non per forza rivoluzionaria o sconvolgente?
Qui Bonami manca di coraggio, anzi mostra una naturale pavidezza. Fosse altrettanto caustico sull’arzigogolato Matthew Barney o sull’ipervalutato Richard Prince, farebbe un atto di autentica giustizia. Ma non è possibile, sono rappresentati da gallerie troppo potenti e in fondo il buon Checco tiene famiglia, come tutti noi...
Si crede Picasso fa sorridere e gliene rendiamo merito. Ma alla fine della rapida lettura resta l’impressione di un’ulteriore occasione buttata al vento.
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