Quei ragazzi a bordo delle «navi bianche»

Quei ragazzi a bordo delle «navi bianche»

di Ferruccio Repetti

Addis Abeba, 8 maggio 1942. E poi, via via: Dire Daua il giorno 9, Giggica il 10, Argheisa l’11, Mandera il 12, e finalmente (finalmente?) Berbera il 13. Ma è solo l’inizio. Rigirando fra le mani quel casco coloniale dove le tappe stanno scritte in successione, si scopre (ed è una trafitta al cuore, per chi l’ha vissuto): «Partenza da Berbera il 17 maggio, Porto Elisabeth il 27, Las Palmas l’11 giugno, Gibilterra 20 giugno, Napoli il 22»... Più in grande, quasi all’apice, il nome che è la parte del tutto, la chiave di volta per capire: «Saturnia», una delle quattro unità speciali, le «navi bianche» attrezzate a ospedale che trasportarono in Italia dall’Africa Orientale Italiana oltre 30mila civili, prelevati dalle loro case dopo l’occupazione delle truppe britanniche nel 1941 e confinati provvisoriamente nei campi di concentramento. Donne, anziani, invalidi. Ed anche tantissimi bambini, come ricorda «uno di loro», Massimo Zamorani, che oggi «racconta il viaggio epico vissuto in prima persona» nel volume «Dalle navi bianche alla Linea Gotica-1941/1944», Mursia Editore.
Fu un’odissea, ed è fin troppo facile, ma addirittura riduttivo, definire con questo termine una tradotta così penosa e tormentata, che non poté usufruire neanche del transito per il Canale di Suez, visto che gli Inglesi avevano preteso la circumnavigazione dell’Africa e, quindi, l’allungamento estremo e sfiancante del viaggio. Scandiscono questo le «tappe» vergate, scolpite nell’anima prima ancora che sulla tesa di «quel» casco coloniale, di misura troppo piccola, del resto, per essere indossato da un adulto. Un «casco di profugo, prodotto dalla MS Firenze e commercializzato da Nicola Geralimatos di Addis Abeba, fine anni Trenta», indossato da uno dei giovanissimi italiani. Alla partenza, che doveva essere in qualche modo di speranza, e durante la navigazione, che doveva rivelarsi invece prova durissima.
Viene in mente quest’immagine, innanzi tutto, questo bambino sconosciuto e il suo cappello targato di approdi, mentre si scorre la prefazione di Mario Cervi al libro di Zamorani (che del suo casco personale, tanto simile a quello citato, riporta anche una foto fuori testo): «Questa delle navi bianche - scrive al riguardo Cervi, già direttore del Giornale e tuttora vicino ai nostri lettori con la sua “Stanza“ quotidiana - è una favola vera, uno di quegli episodi minori, ma straordinari che sempre s’inseriscono nel grande libro della grande storia. La favola di quattro transatlantici della bella marina mercantile italiana (Saturnia, Caio Duilio, Vulcania e Giulio Cesare) che furono autorizzati dagli inglesi a imbarcare, nel porto somalo di Berbera, migliaia di connazionali delle colonie per portarli in Italia. Zamorani - ricorda a questo punto Cervi - aveva da pochissimo superato il limite del quindicesimo anno di età, doveva restare a terra, ma la madre, con l’ingegnosità e il coraggio che solo le madri hanno quando si tratta di salvare i figli, corresse la carta di identità e lo infilò tra i partenti». Fu per questo che «l’incorreggibile Massimo» si ritrovò in patria, e «non trovò altro di meglio da fare che arruolarsi nelle forze armate dell’ultimo Duce, così andando incontro a un’altra prigionia». E sì, perché, «dopo mesi e mesi nei campi di prigionia trascorsi in proibitive condizioni climatiche, igieniche, alimentari e sanitarie» in Africa e, in parte, anche sulla nave, a Zamorani doveva sembrare quasi una liberazione ritrovarsi «a casa». Dove, come altri giovani rimpatriati (fra cui l’allora sconosciuto Hugo Pratt, padre di Corto Maltese) si arruolò volontario nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana, combatté sulla Linea Gotica, fu dato disperso in battaglia, e finì ancora una volta prigioniero in Algeria e, infine, a Taranto.
Vicende puntualmente e rigorosamente descritte nel libro che abbraccia un periodo che è di una vita, e arriva fino ai giorni nostri, quando Zamorani, animato dal suo «solito» spirito indomito, torna più volte in Africa, e poi in Iraq, Bosnia, Kurdistan, Golfo... Da giornalista inviato in zona di guerra, lui che appartiene a pieno titolo a quella schiatta di corrispondenti di guerra alla Egisto Corradi, tanto per fare un nome, che - come diceva Vittorio G. Rossi, tanto per fare un altro nome iscritto alla medesima schiatta - raccontano solo quello che hanno visto e vissuto sul campo.
Scorrono, così, come un romanzo - ma è una storia vera! - anche gli anni della guerra «dalla parte sbagliata». E qui tornano vivide le parole di Cervi: «Questo libro - scrive ancora nella prefazione - dev’essere inserito con pieno diritto nel filone di una saggistica che vuole riabilitare gli sconfitti della Seconda Guerra Mondiale. Che vuole cioè spiegare come e perché tanti italiani onesti e generosi credettero fino all’ultimo nel fascismo, combatterono sotto le bandiere della Repubblica di Salò, morirono convinti d’essersi schierati dalla parte giusta della storia. Illusi, certo - riconosce Cervi -. Coerenti fino all’insensatezza. Questi resistenti (sì, resistenti davvero alle lusinghe del conformismo e del quieto vivere) non avevano niente da spartire con la gentaglia che, nel tramonto mussoliniano, affiancava i tedeschi nella repressione; e nemmeno avevano niente da spartire - conclude sempre Cervi - con la folla imbelle dei partigiani dell’ultima ora».
È Zamorani, il poco più che bambino Zamorani, che vive questa tempesta di «ragazzo fuggiasco dalle terre dell’effimero impero fascista e di giovanissimo combattente volontario sulla Linea Gotica», e ne dà efficacissimo, drammatico resoconto nel libro. Con un «taglio» che nulla concede alla retorica e al sentimentalismo di maniera, che sarebbero pur comprensibili da parte di chi non scrive «per sentito dire». Il significato più profondo del volume (se non l’obiettivo primario che si è posto Zamorani) è tutt’altro che la semplice rievocazione storica. Ed è l’autore stesso a dichiararlo a testa alta: «Nessuno si è mai interessato alla vita di questi italiani d’Africa dopo il crollo delle forze armate nazionali, nel momento di assenza di ogni autorità e poi durante l’occupazione militare britannica e il ritorno del negus Ailé Selassié, che si comportò in modo esemplare nei confronti della popolazione italiana. È una vicenda - insiste Zamorani - che riteniamo valga la pena di rievocare e costituisce la prima parte del volume, scritto da un ex bambino di allora, proprio uno di quelli che hanno compiuto la crociera di guerra a bordo delle Navi Bianche». In questo senso, «la Linea Gotica è il seguito naturale del crollo dell’impero, della prigionia a Dire Daua, della traversata. I ragazzi d’Africa sono stati coinvolti molto presto e direttamente dalla guerra, ne conoscevano l’amaro sapore, ma proprio per questo - conclude l’autore - ritenevano fosse necessario impegnarsi totalmente perché la guerra finisse con la vittoria e il ritorno là da dove erano stati cacciati e credevano fosse giusto tornare».
«Illusi, certo», come ha già ammesso Cervi. Ma è altrettanto certo che - da bambini o adulti, ma sempre uomini - siano stati e siano rimasti coerenti.

Ecco perché, pur leggendo «Le Navi Bianche» criticamente e senza pregiudizi, non si può fare a meno di condividere l’assunto. Che è di Cervi, ma anche di Zamorani e di tutti coloro che credono in certi Valori mai obsoleti: «Quando gli affetti e i valori sono così solidi e duraturi, giù il cappello».

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