Quei simboli che possono favorire l’integrazione

Molte scuole italiane all’estero fanno già quel che le scuole italiane d’Italia ancora non fanno: l’alzabandiera proposto dall’ex ministro Giulio Tremonti e ora «accolto» anche da Walter Veltroni, che però chiede d’accompagnarlo con «lo studio delle lettere dei condannati a morte della Resistenza» (dall’intervista-lenzuolo al Corriere).
Scusi, sindaco e leader in pectore del Partito democratico: e perché non anche delle lettere dei ragazzi che si immolarono ad El Alamein? O dei giovani che scrivevano dalle trincee nella prima guerra mondiale? Perché non le parole di Cesare Battisti prima d’essere impiccato, gli scritti dei patrioti incarcerati nel Risorgimento, le poesie di Carducci, Leopardi, Manzoni piene d’amore italiano? O magari le lettere dei giovani di Nassirya? L’alzabandiera è memoria tutta intera. E della memoria non è bello appropriarsi solo di alcune e pur esemplari pagine, politicizzandola. E per giunta limitandosi a copiare ciò che ha appena fatto il presidente Nicolas Sarkozy a Parigi nell’anniversario della Bastiglia. Almeno lo sforzo della fantasia. Del resto, basta assistere a una di queste cerimonie per capire che cosa sia un moderno alzabandiera. Alla Scuola Italiana di Montevideo (Uruguay) ho visto ragazze e ragazzi in divisa - ma divisa all’ultima moda e con tanto di risvolto tricolore sulla giacchetta, nulla del «militaresco» -, che cantavano con allegria l’inno di Mameli. Un atto dolce e gioioso, accompagnato dall’inno uruguaiano («Orientales, la patria o la tumba...»); perché questi studenti sono cittadini sudamericani e non sempre d’origine italiana. Ma quel canto rende i figli dell’America latina consapevoli d’appartenere al «mondo in italiano». L’alzabandiera nelle scuole in Italia avrebbe lo stesso e straordinario effetto comunicativo. Non solo per gli alunni italiani, ma soprattutto per quelli stranieri, o nati in Italia da genitori non italiani. Cantare l’italianità almeno una volta alla settimana e innalzare tutti a turno il tricolore, è il primo mattone dell’integrazione. Un mattone, tra l’altro, che non costa un euro ai contribuenti, ma che «vale» moltissimo.
Lo straniero che già a scuola si renda protagonista di un piccolo, grande gesto del genere, non sarà mai tentato di vivere da «separato in casa». Sarà lui stesso (o lei stessa) a interrogarsi, da italiano fra italiani, sul significato delle parole intonate. Sulla storia che evocano. Sul perché, poi, quel motivo venga cantato pure dalla Nazionale prima della partita, suonato dopo una vittoria della Ferrari, interpretato all’apertura di un concerto di Muti alla Scala o, semplicemente, ascoltato sull’iPod in versione techno oppure rock. Non è vero, oltretutto, che noi siamo meno patriottici di altri europei. Sono solo le istituzioni a offrire scarse opportunità di simbolica e felice appartenenza nazionale. Ma se c’è da cantare, gli italiani cantano benissimo.
f.

guiglia@tiscali.it

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