Ci voleva il presidente Barroso per scoperchiare le vergognose lungaggini che impediscono agli stranieri di investire in Italia. Ikea, colosso svedese dei mobili fai-da-te, voleva aprire un punto vendita presso Pisa: ha dovuto attendere sei anni e alla fine si è insediato altrove. La regione Toscana si è arrabbiata, il governatore democratico Enrico Rossi ha puntigliosamente sfoderato tutto l’armamentario della burocrazia nostrana per difendere il proprio operato. «In Cina bastano otto mesi», ha ribadito il presidente della Commissione europea. E tanti saluti a mercato unico, semplificazioni, liberalizzazioni.
«In Germania ci sono esempi peggiori», ha aggiunto Barroso per indorare la pillola. Dell’Ikea di Pisa (20mila metri quadrati, 70 milioni di investimento, 350 posti di lavoro) si occupò anche l’International Herald Tribune che l’additò come «esempio della scoraggiante via per la prosperità» dell’Italia. Purtroppo non è un caso isolato. Nessuno si è indignato quando fu l’imprenditore brianzolo Vittore Beretta, titolare dell’omonimo salumificio, a dire le stesse cose l’anno scorso. Dieci anni fa propose al comune di Rovagnate (Lecco) di aprire un nuovo stabilimento dove assumere 300 persone. Gli enti locali si mossero nel 2008, il progetto poté essere presentato a marzo 2010: tutto è ancora fermo. «Abbiamo sedi in tutto il mondo e le aperture in America e Cina sono state molto meno problematiche», ha confessato Beretta alla Provincia di Lecco.
Lo Stivale è pieno di casi analoghi. Sempre l’Ikea voleva aprire un secondo magazzino nel Torinese, 160mila metri quadrati presso Moncalieri: cinque anni di riunioni, sei conferenze dei servizi, un milione di euro per i progetti, poi il «no» della provincia di Torino perché «non possiamo consumare altro suolo». E così l’anno scorso, assieme a un investimento da 60 milioni di euro e 250 nuovi posti di lavoro, è sfumato un altro po’ della credibilità italiana agli occhi di chi ci vuole portare soldi e lavoro. Per lo «store» di Padova la multinazionale svedese dovette attendere nove anni, ma almeno alla fine ce l’ha fatta.
A Brindisi da undici anni la British Gas lotta per installare un rigassificatore per importare otto miliardi di metri cubi di metano egiziano. Senza nemmeno aprire il cantiere, ha già speso 250 milioni. Centinaia di posti di lavoro nel Mezzogiorno in un settore dell’industria energetica che dovrebbe rilanciarsi, visto il definitivo abbandono del nucleare. Invece no. Un altro rigassificatore è stato bloccato dal comune di Porto Empedocle, in provincia di Agrigento.
Sempre in tema di gas, nella Bassa modenese, tra Finale Emilia e San Felice, da cinque anni la società Ers è disposta a investire 20 milioni in ricerche per verificare se si possa realizzare un deposito in una cavità naturale sotterranea: le trivellazioni servirebbero non (ancora) per realizzare il sito di stoccaggio, ma per studiarne scientificamente la fattibilità senza rischio per la popolazione. L’ultimo «no» della regione Emilia Romagna è della scorsa settimana: ragioni di sicurezza.
Altre lentezze dell’Italia del «non fare». Gli impianti a biomassa di Monreale e i due impianti eolici della Apiholding nel Foggiano hanno atteso quattro anni la valutazione di impatto ambientale.
Lo scorso maggio la danese Maersk, il numero uno al mondo nella movimentazione dei container, ha deciso di abbandonare il porto di Gioia Tauro, dove trasportava un container su quattro. Aveva chiesto all’autorità portuale di snellire le procedure, aumentare la funzionalità del retroporto, migliorare l’organizzazione produttiva. Ha preferito dirottare le proprie navi verso attracchi più convenienti: Malta e il Nordafrica.
Secondo la classifica Doing business (fare affari) stilata dalla Banca Mondiale, l’Italia è all’80mo posto nel mondo, penultima in Europa davanti alla Grecia. Colpa della burocrazia, dei veti, della «sindrome Nimby», dell’incapacità di decidere.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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