«Quel giorno che Indro arrivò al Fatebene con i proiettili delle Br»

«Era un giovedì. Anca si mi a ghù vuntant’ann, non mi posso sbagliare. Ero sempre di turno, il giovedì mattina, in chirurgia d’urgenza al Fatebenefratelli». E di quella giornata di 32 anni fa - 2 giugno 1977 - Giorgio Caprotti ricorda altro ancora. Lui è il nostro dottore, il dutùr del Giornale, «milanese di nascita e di razza», come tiene orgogliosamente a precisare tutte le volte che ti prende la pressione regalandoti pillole di saggezza in meneghino stretto. E se sei veneto o calabrese e non capisci, ranges! Arrangiati!
«Erano le 10 e 20, quando in quel porto di mare che è sempre un pronto soccorso, la confusione salì di colpo», ricorda. L’ennesima sirena, passi di corsa nel corridoio ed ecco entrare d’impeto una barella. Steso sul telino verde, con una pallida smorfia di dolore che gli alterava appena il volto, c’era un signore lungo lungo e magro magro, con due gambe secche come quelle di un fenicottero. Sanguinavano, inzuppando di rosso i pantaloni grigi.
Era Indro Montanelli. Pochi minuti prima, un commando delle bierre gli aveva esploso contro quattro colpi mentre lui, appena uscito dall’Hotel Manin, stava per compiere il breve tragitto a piedi fino alla redazione del Giornale, in piazza Cavour. Gli avevano sparato alle spalle. E «vigliacchi!», infatti, era stata l’unica cosa che lui gli aveva gridato dietro, mentre si aggrappava alla cancellata del parco cercando di non cadere. Soltanto così - «vigliacchi!» - irriducibilmente asciutto ed essenziale perfino nell’improperio.
«L’avevo riconosciuto - dice Caprotti - anche perché con il Giornale collaboravo per la pagina della medicina. “Direttore, cosa le è successo?”, chiesi. “Mi hanno sparato”, e aggiunse “da dietro”». Dettagliato, cronista fino in fondo. «Infatti non era per nulla terrorizzato, bensì perfettamente lucido». Tanto da aggiungere subito, con la fulminea ironia di uno dei suoi Controcorrente, «voglio sapere se i proiettili sono stati più intelligenti di quelli che mi hanno sparato». La sola paura era di rimanere menomato. «Mi tirò per un braccio sussurrandomi: “Dottore mi dica subito se resterò zoppo o se dovrete amputarmi una gamba...”. Esaminai le ferite. Erano sei nella coscia destra, tre d’entrata e tre d’uscita, più quella lasciata da una pallottola rimasta dentro la sinistra, ma fortunatamente lontana dall’arteria femorale. Altrimenti, in venti minuti sarebbe morto dissanguato». Anche gli altri controlli, prima di mandarlo in radiologia, confermarono che qualcuno aveva tenuto una mano sulla testa del grande toscanaccio. Tre cose tranquillizzarono Caprotti: «Il polso era pieno, segno che il sangue circolava bene; c’erano sia la motilità passiva sia quella attiva, a conferma che la parte ossea era integra; e l’innervazione era presente e simmetrica. In più non c’era sangue nelle urine e l’addome risultava perfettamente trattabile. Magro com’era, come una lucertola - ricorda sorridendo - tastandolo riuscivo a sentirgli perfino la colonna vertebrale. Così lo tranquillizzai: “Direttore, lei camminerà sulle sue gambe”».
La radiografia confermò: non c’era frattura. «Allora, me la concede una sigaretta?», chiese lui. «Dissi di sì, che sarebbe stata meglio quella di un ansiolitico. E il bello che a offrirgliela fu un infermiere che era il capo della cellula comunista del Fatebenefratelli, rimasto colpito dalla pacatezza di quell’uomo che fino a quel giorno aveva senz’altro considerato come un “nemico”». Ma bisognava procedere all’intervento per rimuovere il proiettile. «E Montanelli, subito: “Conosco bene il professor Malan, voglio essere operato da lui”. Mi sentii mancare perché il primario era un altro e per una cosa così rischiavo il posto. Ma potevo dirgli di no?». L’escamotage, termine francese per un’abilità tutta italiana, fu una camera tirata fuori «in campo neutro, alla Clinica Madonnina. Convinsi un mio paziente che stava là e che sarebbe uscito il giorno dopo, a spostarsi di stanza. E sulla cartella clinica, per giustificare il trasferimento, misi una sigla, “p.r.s.”, ovvero “per ragioni di sicurezza”, inventata lì al momento, ma che come tutte le sigle misteriose riuscì a incutere timore e a tacitare ogni eventuale volontà di chiarimento».
Prima però che l’ambulanza lasciasse il «Fatebene» da un’uscita posteriore - piazza Principessa Clotilde, davanti all’ingresso, era ormai come San Siro il giorno del derby - Montanelli chiamò accanto a sé Gianni Ferrauto, l’allora amministratore delegato del Giornale, bisbigliandogli qualcosa all’orecchio. «Gli consegnò la pistola che teneva per pura scaramanzia alla cintola - rivela Caprotti - ma soprattutto gli affidò un delicato incarico: portar via dalla sua camera dell’hotel Manin una fotografia che lui teneva sulla scrivania.

“Sai, è quella di Stalin e non vorrei che trovandola qualcuno dicesse che faccio il doppio gioco”, spiegò. “D’accordo direttore, ma perché tiene proprio quella foto”, chiese uno sbalordito Ferrauto. “Perché Stalin è quello che ha ucciso più comunisti”». Solo lui: unico, irripetibile Indro.

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