nostro inviato a Chicago
Bianco, nero, rosso, blu, viola: mischia e troverai Obama. La storia è una tavolozza che impasta la diversità, tritura il luogo comune, miscela ieri, oggi e domani. Aggiunge, toglie, rimette, ritoglie. La pelle è quasi un dettaglio, perché il primo nero alla Casa Bianca è una leggenda che non si può banalizzare con una tinta. È la sfumatura che diventa dominante. Barack si sente il futuro. Parla al plurale: «Yes we can». Chi è? Che vuole? Che fa? Dove va? O-b-a-m-a, O-b-a-m-a, O-b-a-m-a. Ora non c'è un centimetro quadrato del pianeta che non sappia chi sia. Trascina migliaia di persone ai comizi, tiene 23 milioni di americani attaccati alla tv in uno spot lungo mezz'ora. Barack il seduttore della folla, l'adescatore di voti: negli ultimi 22 mesi ha detto più una sua smorfia che l'intero discorso di qualcun altro. Ha le chiavi della storia in tasca, le tira fuori: tac, si apre. Benvenuti nella sua era. Quale? Perché non sai come si muoverà. Conosci l'aspetto, la faccia, il sorriso, i denti, la voce. Non quello che farà.
Allora chi è Barack? Il più grande leader del terzo millennio? Un politico cinico? Un candidato costruito a tavolino? Un opportunista? Un messia laico? Un uomo spontaneo? La gente non vota facendosi delle domande, non quando c'è uno così. Qui si va a impressione, a sensazione, a fiducia. Lui trasmette futuro, per qualcuno speranza, per altri sogni. Per qualcun altro terrore, certo. E poi ansia, incertezza, inadeguatezza. Diversità, anche. Obama è piaciuto all'America: perché sa parlare, perché cancella una generazione che forse ha fallito troppe volte, perché lo ascolti e gli credi. Non sai se ce la farà, però se non lo metti alla prova non lo scoprirai mai. Allora ispira. Affascina, colpisce, prega, piange. Umano. Uno che fumava, che ha provato la cocaina, che sbaglia, uno che non vuole dare l'impressione di essere perfetto. L'hanno chiamato il Kennedy nero, con quel paragone ingombrante che deve sopportare ogni candidato democratico che non sia un Clinton. Lui ringrazia, poi però all'ultimo giro tira fuori uno spot che sembra uscito dalla campagna di Reagan, qualcosa tipo: «Ehi America, siamo nei guai. Però possiamo farcela». È l'ottimismo. È la consapevolezza delle radici di un sogno. Si ispira a Lincoln, allora. Springfield è stata la città da dove ha annunciato la corsa verso la Casa Bianca. Da lì, perché il presidente Abramo pronunciò il discorso sulla casa divisa. A Springfield finì la schiavitù negli Stati Uniti d'America: il primo afroamericano presidente non è uno che trascura i dettagli. All'inizio e alla fine. Perché l'ultimo discorso arriva a Manassas, in Virginia, dove 146 anni fa i Sudisti ottennero le loro più famose vittorie nella Guerra Civile. Due battaglie che per la storia oggi sono le peggiori sconfitte per i diritti dei neri d'America. Simboli. Obama sa. Obama è un messaggio perenne, come se ti voglia ripetere il suo mantra: «Se io nero, vengo qui, dove i neri furono massacrati, lo faccio perché questo Paese deve superare le diversità. E può farlo». Yes we can, sempre. Comunque.
Obama è un sognatore pragmatico, cioè un ossimoro nella vita, ma non nella politica. Sa ascoltare e sa parlare. Toglie la giacca, arrotola le maniche della camicia, non urla, non insulta, non si agita: si siede su uno sgabello e comincia. Qui c'è il romanzo dell'America che comincia dal basso e può arrivare in alto. Comincia da un immigrato del Kenya che conosce una giovane bianca del Kansas, se ne innamora e la sposa. Comincia il 4 agosto del 1961, al Queen's Medical Center di Honolulu, Hawaii, dove la madre s'è trasferita per stare con i genitori. Comincia dal nome: Barack Hussein Obama Junior. Il sogno di Obama non è solo retorica: è la storia di un Paese che accoglie, accetta, alleva i suoi figli. Barack è andato e tornato: ha vissuto in Indonesia, a Giakarta. È rientrato per stare alle Hawaii coi nonni materni. È partito di nuovo per l'università: s'è laureato a New York, alla Columbia University. Poi Harvard, la specializzazione in legge. Il sogno americano è ancora questo: è la possibilità perenne di un riscatto o di una chance. Gli Stati Uniti l'hanno scoperto a Boston, durante la Convention del 2004. Lo staff di John Kerry scelse Barack per il discorso più importante, perché aveva bisogno di un afroamericano. Obama non era nessuno. Si presentò sul palco: «Siamo qui per il nostro futuro. Perché dobbiamo smetterla di pensare che un ragazzo nero con dei libri in mano è solo uno che imita un bianco».
Eppure nella comunità afro, Barack all'inizio ha trovato resistenze. «Troppo bianco per essere nero», l'ha sentito troppe volte. L'hanno accusato di non venire dal ghetto, di essere anomalo. Lui ha trascinato nella campagna elettorale la moglie Michelle, che invece viene dal quartiere duro di Chicago. Obama no. Obama è quello che è piaciuto subito a Hollywood: tutti con lui, perché faceva figo. Gliel'aveva predetto nel 1997 Kirk Dillard, leader repubblicano al Senato dell'Illinois. «Signori, quel Barack diventerà una rockstar della politica americana». Undici anni sono niente. Sono tutto: lui, lui, lui, il volto, il sorriso, la battuta, la voce. E il messaggio? Where is the beef? La ciccia, amico. La perversione del meccanismo mediatico ha spinto l'Obama personaggio, ma non ha fatto passare l'Obama politico. Allora qualcuno ha cominciato a fare ironia: esiste il programma? Lui si è arrabbiato: un giorno ha riunito un gruppo di giornalisti che lo seguiva durante una tappa elettorale in Iowa e ha parlato. «Ragazzi, siete voi che volete parlare solo di me e non delle mie idee. Io ne parlo tutti i giorni: racconto come voglio cambiare il Paese, come voglio modificare la politica estera o riformare il sistema sanitario nazionale e invece il giorno dopo leggo solo com'ero vestito o il sorriso che ho fatto». Lo stesso discorso l'ha fatto allo staff. Perché la sua corsa verso una nomination difficile se non impossibile, s'è mossa su due binari paralleli: Obama è stato il campione della raccolta fondi. Partiva povero e ha incassato più di tutti: nessuno degli avversari ha fatto aprire così i portafogli agli americani. Ricchi, poveri, famosi, sconosciuti. Internet è stato lo strumento, il mezzo, la strada. Ci siamo: è il suo domani, questo. È il domani di uno che si sta costruendo il futuro: il primo presidente nero della storia. Ora sì. Ora c'è. Dice che la moglie, quando vuole dargli la scossa, gli ricorda le tappe della vita: «Ogni volta, Barack è arrivato dove ha voluto». Ad Harvard nessun nero aveva mai diretto la Law Review. Arrivò lui e ci riuscì. Decise di candidarsi alla Camera dell'Illinois e decise di rifiutare l'appoggio politico del mondo del sindaco di Chicago Richard Daley: nessuno aveva mai vinto in quel distretto senza. Arrivò lui e ci riuscì. Allora decise di candidarsi per il Senato. Mai uno che non avesse avuto esperienza politica nazionale aveva fatto il discorso chiave in una convention presidenziale. Arrivò lui e ci riuscì. Non s'è più fermato. Tutti pensavano che l'avrebbe fatto adesso. S'erano invaghiti della sua corsa, con il sospetto che comunque non avrebbe avuto speranze sia con Hillary Clinton, sia con John McCain.
La corsa è stata complicata, lunga, difficile. Obama ha sfruttato il momento, la popolarità, il politicamente corretto, una campagna perfetta fatta di slogan perfetti: «Yes we can», poi «Change». Domani, domani, domani. L'audacia della speranza. Ha avuto il grande appoggio dei media internazionali e nazionali: tv e grandi giornali si sono innamorati di lui e della sua storia da vincente e del suo sorriso. La ciccia è arrivata alla spicciolata, sempre e comunque dopo la faccia, sempre e comunque dopo il messaggio, la parola, l'eloquenza. L'America e il mondo sono rimasti in attesa: questa è la più grande soap opera della storia, il reality della politica e del futuro.
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