Quel sorriso trovato alla fermata del tram

Anche ieri sera era là, al suo solito posto, poco dopo la curva della quart’ultima fermata del tram. La quart’ultima, beninteso, per me che scendo due fermate prima del capolinea, quindi è la sest’ultima, per essere precisi.
Io sono un tipo preciso. Fin troppo, secondo qualcuno. Anzi secondo quasi tutti, per essere preciso.
Insomma lei era là come al solito, a un metro, un metro e mezzo dal tombino, proprio di fronte alla saracinesca dell’elettrauto. Anche lei è precisa. Precisa e bella, bellissima. Ha i capelli lunghi e neri. Li tiene sciolti sulle spalle, e ogni tanto li muove un po’, come muove la criniera una cavalla in attesa del cavaliere. Lei attende, infatti, i clienti.
Una puttana così bella non s’è mai vista. Ora che siamo in inverno lo si nota meno, certo. Ma sotto il giubbotto bianco con il cappuccio imbottito ha un busto da ballerina, però con un seno bello sodo di dimensioni non trascurabili, diciamo una quasi-terza, per essere precisi. E i pantaloni attillati inguainano gambe diritte e lunghe e un sederino di quelli che dicono «mangiami», come le ciliegie a primavera. Lo dico perché è dalla scorsa primavera che lei batte lì.
***
Come dicevo, ieri sera era là come al solito. E io, come al solito, come tutte le sere dal lunedì al venerdì, mi sono accontentato di guardarla, di ammirarla, per quel minuto-minuto e mezzo che il tram impiega mediamente, tra un semaforo rosso, un passeggero che sale o scende lentamente e un pirla di automobilista che non ci dà la precedenza, per imboccare il lungo rettilineo di via T.L.
Ieri però è successa una cosa strana. Sul tram ero solo. Non era strano il fatto che fossi solo: erano le 23,15 del 30 dicembre e la gente la sera del 30 dicembre se ne sta in casa a ricaricare le batterie in attesa della sera dopo, la sera del Capodanno, la sera più lunga, quella in cui si deve far finta di essere allegri, mangiare-bere-ballare-pazziare-scopare.
No, la cosa strana è stata che lei mi ha sorriso. E sono certo che abbia sorriso proprio a me per due motivi: primo perché, come detto, ero l’unico passeggero; secondo perché ha sorriso guardando chiaramente verso il tram dopo che la testa del tram (quindi dopo che l’autista), era sfilata via, inghiottita dalla nebbia. È stato un sorriso dolce, non un sorriso che vuole catturare, non un sorriso professionale. Uno di quei sorrisi che le studentesse regalano ai baristi, quando vanno a prendersi un caffè dopo aver passato l’esame di Storia della Filosofia Antica, o che le infermiere riservano a un malato grave.
Così ieri sera, tornato a casa, mangiata la mia frittata e bevuto il mio mezzo bicchiere di vino, lette una decina di pagine di un romanzo poliziesco piuttosto claudicante, mi sono ficcato a letto con quel sorriso stampato sotto le palpebre.
E questa mattina mi sono svegliato con un’idea in testa. Un’idea e un timore.
***
Avrete già capito quale fosse la mia idea e quale il mio timore. Ma, per essere preciso, ve lo metto per iscritto. L’idea era quella di scendere alla quart’ultima (pardon, sest’ultima) fermata per conoscere finalmente la cavalla-ballerina-studentessa-infermiera. Il timore era che lei non ci fosse. Che fosse, per dire, a far Capodanno con gli amici, o con il fidanzato, il marito, l’amante... O con un cliente.
Dunque, sono sceso alla sua fermata. Ma senza esser certo che lei ci fosse, perché la fermata è una ventina di metri prima dell’angolo dietro cui lei sta. Sono sceso con il cuore in gola e lentamente, quasi assaporando il brivido del trionfo o della delusione, ho percorso quei venti metri, addirittura fermandomi ad accendere una sigaretta.
***
«Scusi, ha da accendere?».
«Certo, certo, subito... prego...».
«Grazie mille. Che nebbia anche ’sta sera...».
«Sì, un bel nebbione. Pensavo...».
«Sì?».
«No, dicevo... pensavo che l’ultimo dell’anno con la nebbia è un po’ strano... O forse no».
«In che senso?» (e muove la criniera nera, nera come gli occhi).
«Nel senso che l’ultimo dell’anno è un’incognita no?».
«Un’incognita?» (è bella anche la voce, calma, vellutata, tiepida, magari è davvero un’infermiera).
«Cioè l’ultimo dell’anno è un po’ come l’ultimo passo che facciamo prima di aprire una porta, la porta del primo dell’anno dopo (come mi è venuto in mente ’sto discorso proprio non lo so). Ma non sappiamo che cosa ci sarà dietro quella porta...».
(Sorride, lo stesso sorriso della sera prima. E io prendo coraggio.)
«... proprio come non sappiamo che cosa c’è fra cinque, sei metri, per colpa della nebbia».
«Ha ragione» (non mi dà del «tu», e questo mi piace molto).
«Be’... signorina...».
«Anna, mi chiamo Anna».
«... signorina Anna, io... A questo punto (guardo l’orologio)... sono le 22,35, quindi... nebbia o non nebbia...».
(Sorride ancora, bellissima, e butta il fumo della sigaretta in alto.)
«... incognita o non incognita, le auguro un bellissimo e sereno 2008...».
«Sarà dura...» (si fa improvvisamente seria).
«Dicevo... Dicevo così, nel senso che...» (quasi mi pento di esser sceso, imbecille che non sono altro).
«No, lei ha ragione... Le incognite possono essere anche positive, no?» (e dicendo «no?» mi fissa, ancora seria, e noto negli occhi una luce più intensa, di commozione, direi).
«Anche positive, sì. È possibile. Certo che è possibile. Mi scuso se le ho... (un cretino rallenta e accosta, dà un’occhiata - lei non se ne accorge nemmeno - e per fortuna se ne va) se le ho fatto questo discorso così idiota».
«No, ma quale idiota» (e torna a sorridere).
«Be’, allora, tanti auguri, signorina...» (butto la cicca e, come un cane bastonato, faccio per andarmene verso il semaforo).
«Senta, senta... Io qui... insomma, questa sera pare che tutti siano già nel pieno dei festeggiamenti e... Se lei...».
***
Adesso sono le ore 7,20 dell’1 gennaio 2008. Mi alzo, vado in bagno e apro la finestra. Non c’è nebbia, ma un bel sole.

E non fa nemmeno tanto freddo. Respiro profondamente. E nel preciso istante in cui penso «ci vorrebbe un caffè»... sento profumo di caffè.
Ci credete o no se vi dico che da cinque anni non bevevo un caffè in casa?
Daniele Abbiati

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