Quell’amore di carne e libri

Nel saggio di Régine Pernoud l’intensa e tragica vicenda del legame fra Eloisa e Abelardo

Quell’amore di carne e libri

Non c’era solo il dolore fisico per quell’amputazione violenta. L’avevano sorpreso nel sonno e scempiato nella sede della virilità. Ma la sofferenza era stata passeggera, attutita dai sensi intorpiditi. C’era piuttosto e soprattutto il bruciore della vergogna, il precipitare in fondo al pubblico ludibrio d’un uomo ch’era stato miele sulla bocca di tutti.
Meraviglia e ammirazione erano state le sue compagne. Sino alle tenebre traditrici, figlie della vendetta. Perché il canonico Fulberto non aveva perdonato il magister cui aveva affidato la nipote sedicenne. Era giovane e seducente, Eloisa, di volto e di testa: «Se per aspetto non era tra le ultime, era la prima per la profonda conoscenza delle lettere». E davanti a quegli occhi pieni di luce il maestro era rimasto accecato: aveva creduto di poterla fare sua senza difficoltà, con la fama e la bellezza fisica.
Del resto, quante donne non avrebbero invidiato la giovane studentessa? Il filosofo di cui diveniva discepola e amante non era come la gran parte dei chierici dediti allo studio: piacente e brillante, aveva umiliato i compagni, sconfitto i propri maestri, fondato scuole ambite e costose, innovato la filosofia. Ed era casto, si sapeva. Così bello, intelligente, famoso. E così vergine. Quanti occhi si erano posati sulle sue labbra e avevano dovuto ritrarsi con rossore. Perché lui non si concedeva, conscio d’essere il primo teologo della storia: lo chiamavano così, riprendendo una sua affermazione ch’era sembrata, per l’epoca, scandalosa. Perché lui era superbo, secondo l’ammonimento di san Paolo ai Corinzi: «La scienza rende superbi». Senza contare celebrità e ricchezze. Senza contare quella fanciulla da sedurre.
Nel secolo di san Bernardo e delle crociate, tra sorgere di università e risorgenze ereticali, l’Europa vide il dramma di una coppia imprevista (la cui vicenda è narrata da Régine Pernoud nel 37º volume della Biblioteca storica del Giornale dedicata al Medioevo) che sembrò incarnare il mito di Tristano e Isotta, altro parto di quell’epoca feconda. Lui, bretone classe 1079, si chiamava Abelardo e aveva rinunziato fin da piccolo al diritto di primogenitura e «ai campi di Marte per essere educato tra le braccia di Minerva». Logico sublime, si era attirato il rispetto degli studenti e l’invidia dei nemici. Lei, più giovane di oltre vent’anni, mente fuori del comune, aveva fatto parlare di sé la Francia sino a richiamare l’attenzione del genio. Abelardo posò gli occhi su di lei e la giudicò «degna del suo amore». Ma era voluptas, era «piacere» quella fiamma che lo condusse a mentire allo zio protettore, a intrufolarsi nella loro casa come docente per dare corpo alla sua passione. Furono baci e furono carezze, mentre «la mano correva più spesso al suo seno che ai libri». Inesperta lei, principiante lui, il 1117 li condusse come pellegrini sui sentieri della pelle, sino alle pieghe di un amore senza misura.
E il maestro divenne poeta. E cantautore. I suoi versi per lei erano ripetuti ovunque, mentre occhiaie sempre più scure ne segnavano il volto a lezione, con gli studenti spazientiti. L’unico a non voler vedere era lo zio; sino a quando il ventre di Eloisa si inarcò per accogliere il frutto dei loro studi: lo chiamarono Astrolabio. Venne quindi la fuga, poi il matrimonio riparatore cui lei si piegò solo per amore: perché non voleva essere la moglie di un filosofo. Preferiva esserne l’amante, la prostituta persino, per liberarlo - come insegnavano gli antichi e i Padri della Chiesa - dalle noie materiali del matrimonio. Ma si piegò per amore suo, come per amor e non per libido accettò di entrare in monastero prima di lui, l’unica volta in cui lui non si fidò del tutto di lei. Ma la cosa, malcompresa, fece impazzire lo zio che scatenò gli sgherri, che evirarono lui.
Era l’inizio delle disgrazie di un uomo così scandaloso da essere perseguitato perfino dai santi.

Sino alla morte, nel 1142, quando le mani sante e pietose dell’abate di Cluny l’avrebbero restituito alla sua Eloisa, ormai badessa del Paracleto, il monastero dedicato alla Trinità che lui aveva fondato. Lungo una strada impervia avevano conosciuto tutti i gradi dell’amore umano e cristiano, sino al vertice della caritas, sino al vero dono di sé, reciproco e totale. Perché Dio è amore, Deus caritas est.

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