Quella barbiera non è roba per pisquani

Nel Sillabario della memoria di Federico Roncoroni una ricerca quasi archeologica (e molto sentimentale) dei termini oggi caduti in disuso. Ma che raccontano la storia della nostra lingua

Quella barbiera non è roba per pisquani

Federico Roncoroni

BARBIERA (sostantivo femminile). Donna che di mestiere taglia capelli e rade barbe? No, sicuramente no. Allora, moglie di barbiere? No, neanche questo significato ci stava nel discorso. Ben altro tipo di donna voleva indicare con «barbiera» Paolo Rossi, Presidente della Corte Costituzionale, il giorno in cui andammo a trovarlo, Piero Chiara e io, alla «Gattaiola» in quel di Lucca: una donna che ti pela e scortica con femminile grazia e arte fino a ridurti in miseria, una, insomma, che ti faceva barba e capelli sì, ma in senso metaforico.
E con quale altro termine un gentiluomo come Rossi, raffinato cultore e lettore di testi antichi, poteva definire una donna come quella di cui ci stava raccontando le gesta, una donna ben nota per la sua bellezza, che si era abilmente inserita nel giro dei faccendieri e dei politici romani al tempo dell’affare Lockheed e, in quel turbinio di miliardi, si era fatta ricca impiegando i soli mezzi che aveva, cioè mani, labbra, lingua, tette, cosce, figa e culo? Tra i tanti nomi che anche allora si potevano usare, con quale uno come Rossi poteva con tanta eleganza esprimere la naturalissima tecnica, «la lenta soavità, la sagace ponderazione, i riposi e le ripassate» (Leo Pestelli) con cui la signora in questione aveva fatto, e bene, il suo lavoro?

GAVAZZARE
(verbo). Far baldoria, darsi alla pazza gioia. È una parola antica - risale al Trecento -, registrata nei dizionari come antiquata e praticamente scomparsa. Tra gli ultimi a usarla furono, nell’Ottocento, Alessandro Manzoni in un passo del Fermo e Lucia che non sopravvisse alla seconda stesura del romanzo, Giosue Carducci e Giovanni Pascoli, ma in poesia, e Arrigo Boito, che gli dà come soggetto il vento creando un’immagine memorabile: «Nella Galleria, tra gli stucchi sgretolati, il vento gavazza». Poi, nel Novecento, la recuperano Riccardo Bacchelli, che la incastona in una delle descrizioni di cui è maestro: «Con la fine della guerra, la città gavazza e s’ingaglioffa e stravizia e involgarisce», e naturalmente Carlo Emilio Gadda. Da Gadda io la sentii pronunciare, irosamente, la volta che lo andai a trovare, a Roma, in via Blumensthil 19, all’inizio degli anni Settanta, insieme a un intellettuale che lo frequentava per arraffare qualche inedito. L’ingegnere, che non era di buonumore, dopo un intenso fuoco di sbarramento a base di convenevoli e di scuse «per la povera accoglienza», per il disordine e per le cattive condizioni di salute che lo rendevano, disse, «meno socievole» del giusto, rispose alla richiesta di qualche testo da pubblicare con una battuta che dipingeva alla perfezione lo stato del suo «archivio» e che, di fatto, ho ritrovato poi puntualmente in un suo scritto: rispose che di carte inedite, di scartafacci, ne aveva «tanti da gavazzarci dentro» ma che quel giorno proprio non era il caso di mettersi a cercarli.

MATERASSABILE
(aggettivo). «Di donna che si mantiene sempre discretamente bella e in carne», secondo che scrive nel 1887-1891 Policarpo Petrocchi nel suo Nòvo dizionàrio universále della lingua italiana, cioè «di persona che può essere stesa su un materasso, scopabile», come si legge nel Manuale di lingua e mitologia urbana pubblicato on line nel sito http://www.bruttastoria.it/dictionary e datato 2008. Tra le due definizioni intercorrono cento ventun anni e la differenza di età si nota. Il Petrocchi limita alla donna la materassabilità, mentre il sito web, più moderno, non fa distinzioni e la considera proprio di qualsiasi persona, donna o uomo che sia, e in ciò è perfettamente in linea con i blogger e i navigatori della rete: una buona percentuale delle 2240 occasioni in cui l’aggettivo compare è riferito a uomini, da perfetti sconosciuti a George Clooney a Luca Zingaretti.

PISQUANO
(sostantivo). Ragazzino stupido, sciocco, che non vale niente. Noi, da bambini, lo usavamo come epiteto, dentro e fuori scuola, per mettere al suo posto qualche compagno che esagerava con i suoi scherzi o, peggio, rovinava qualche scherzo con il suo comportamento inopportuno. Un pisquano, per esempio, fu definito in Terza elementare e rimase per sempre, nel ricordo di tutti, il Giulio Mastrangelo, figlio di imbianchino e imbianchino pure lui, che, un anno, con le sue mattane scolastiche offrì alla maestra Lina l’occasione per escludere la nostra classe dalla visita al Tempio Voltiano. «Sei un pisquano», gli disse l’Aldino e da allora lo chiamammo tutti Pisquano. Nella nostra testa il termine equivaleva a «pistola», cui in qualche modo suonava simile alle nostre orecchie. E come una probabile deformazione eufemistica di «pistola» lo definisce nel 1963 Bruno Migliorini, il primo a registrarlo in un dizionario: è, a suo giudizio, un «vocabolo milanese» diffuso in Italia dalla rubrica La signorina Memè del Marc’Aurelio. Invece, oggi che nessuno la usa più da decenni, si pensa che sia sì una voce di area lombarda, ma derivi dall’inglese «pipsqueak», «individuo stupido e insignificante, cosa di poco valore», con l’aggiunta del suffisso -ano.

NAGOTTA (avverbio e sostantivo). Nulla, niente. È l’italianizzazione della forma dialettale lombarda «nagòtt», che in casa mia risuonava spesso in espressioni come «L’è bel fa nagòtt», «È bello fare niente»; «Mi u fa finta de savè nagòtt», «Io ho fatto finta di non sapere niente»; «Fà nagòtt», «Non fa niente», nel senso di «Non preoccuparti, non fa niente, non mi sento offeso»; o anche «Un bel nagòtt» o «Un bell nagotta», «Un bel nulla».

La trascrivo qui, dal libro della memoria, questa parola della mia infanzia, sia per il di più di amore che le porto come a tante altre parole di quegli anni vissuti in famiglia sia per l’etimologia che ne dà Francesco Cherubini: «nagott», dal latino ne gutta quidam, «neppure una goccia».

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