C'è il signor B. che pesa duecento chili, ma quando si arrabbia diventa ancora più pesante. C'è il signor C. che, semplicemente, è depresso. Ma anche il signor K. lo è. La signora T., invece, ogni tanto «si tocca dentro con il marito», intende che ci litiga. C'è il signor L. che ha problemi con le donne, anzi, un problema. Fa il paio con il signor I. che va in crisi quando gli capita di «vedersi mentre lo fa con la moglie» (nello spassoso capitolo «Come in una sauna»). Poi c'è la signorina D. che «pare di un altro secolo», ma c'è anche la dottoressa B. che, d'altronde, è «bellissima». Ci sono le canzoni di Claudio Lolli, di Fiorella Mannoia, di Guccini, di Vecchioni. C'è qualche grido agghiacciante che sembra tirato su dall'inferno dell'anima, ma c'è soprattutto un'infinità di lacrime, di quelle che ci mettono molto tempo per scorrere fuori. Come mettere sulla pagina questo caleidoscopio che sono i Centri psicosociali milanesi? «Cercando di sdrammatizzare un po'» ci dice Massimo Cirri (nella foto di Ronny Kiaulehn), autore di A colloquio. Tutte le mattine al centro di salute mentale (Feltrinelli, pagg. 200, euro 14) e da venticinque anni attivo nei servizi psichiatrici del territorio.
Come è iniziata?
«Come tutte le cose, per amore. Io sono di Carmignano, che era in provincia di Firenze prima che venisse sequestrato da Prato. Decisi di studiare psicologia a Padova perché era più vicino a Udine, e io ero innamorato di una ragazza di quella città. Sono arrivato a Milano nell'83, perché qui c'era un'altra bellissima donna. Che è diventata mia moglie».
Cosa non facciamo per una donna... Ma l'attività psichiatrica?
«Cominciai in quelle che venivano chiamate strutture intermedie residenziali create dopo la legge Basaglia: servivano a ricondurre alla vita di tutti i giorni persone che magari avevano passato vent'anni o trenta in manicomio. Intorno al Paolo Pini ne sorsero un po', gestite dalla provincia, compreso quella Casanuova dove stavo io. Ho passato dodici anni in queste strutture».
Pazzi in semilibertà. Come furono accolti dai cittadini?
«Suscitavano nella gente del quartiere di Affori più avvicinamento che allontanamento, più meccanismi di solidarietà che di paura, non li si vedeva come pericolosi. Negli anni precedenti, d'altra parte, c'era stata una grande riflessione collettiva su quanto inutile e violento fosse il manicomio. Oggi ci sarebbe più paura, più sospetto. Non riguardo la malattia mentale, ma perché paura, timore e sospetto costante sono la cifra del nostro tempo. Può darsi per via dell'immigrazione. Strano, in una città fatta in gran parte da persone arrivate da fuori».
Poi arrivarono i famosi Cps...
«Ci lavoro da tredici anni. In Lombardia dovrebbero essere il perno dei servizi di salute mentale al cittadino, e invece scontano l'essere ridotti ad ambulatori che funzionano, se va bene, dalle 8 alle 16. In altre regioni sono aperti 24 su 24, dando così unindispensabile accoglienza a chi ne ha bisogno. I casi gravi da noi vengono delegati ai reparti d'ospedale, ma questo allontana il malato dalla normalità quotidiana, per esempio obbligandolo al pigiama».
Simulazione antropomorfica. La città di Milano arriva al Cps. Cosa racconta?
«Di essere molto stressata. Bambini a scuola alle 8 e 25 per poi essere in ufficio alle 9 meno un quarto. Basta un po' di pioggia o un semaforo rotto e si esce subito di testa. E racconterebbe anche - caso del tutto inedito per Milano - di sentire il futuro più come una minaccia che come una speranza. Anche l'Expo non ha saputo trainare granché. Ora qualcuno comincia a pensare che sarebbe meglio rivenderla a Smirne e portare a casa un po' di soldi. Si è litigato troppo».
E già si litiga in famiglia...
«Come racconto nel libro. Forse è per questo che sui visi delle persone che vengono al Cps il primo sentimento che vedo affiorare è lo stupore. Lo stupore per il fatto di essere ascoltati da qualcuno. Non parlo di raffinate terapie psicanalitiche, ma del semplice ascolto. Ascoltarsi è diventato un fatto straordinario. Se dovessi scegliere un tratto psicologico predominante di Milano, sarebbe la solitudine. Neanche nel sesso le va troppo bene. E la cocaina non è più percepita come un problema».
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