di Pier Guido Quartero
e Amedeo Ronteuroli
Uno dei modi più sicuri per affrontare il tragitto era quello di mettersi in carovana, in modo che il numero dissuadesse potenziali assalitori, ma non sempre la cosa funzionava; così, per venire ai giorni nostri, avvenne che nel 1945 una colonna scortata da Carabinieri e polizia e i suoi componenti, tra cui alcune signore, furono depredati di tutti gli averi, compresi i vestiti, sotto lo sguardo impotente delle forze dell'ordine, tenute a bada dalle armi spianate dei briganti.
Solo un anno dopo, anche ad un futuro Presidente della Repubblica, l'allora ancor giovane Sandro Pertini, toccò di essere fermato e depredato sul Bracco: in quell'occasione (erano le cinque e mezza del mattino del 30 maggio 1946) si trattava di due soggetti, probabilmente superstiti della banda del Manzo di cui si parla al prossimo paragrafo, che si impadronirono di un orologio d'oro, diciottomila lire ed una pistola.
In quel periodo, le bande che controllavano il percorso erano due: quella del Manzo e quella del Tullio. Il luogo preferito per gli agguati era vicino a Mattarana, e le armi utilizzate erano per lo più di provenienza militare: pistole e Sten tedeschi e anche un '91. Il Manzo, cioè Dario Torri - nato a Tresana in Lunigiana nel 1922 - , fu arrestato con i suoi compagni il 7 febbraio 1946 e, dopo una serie rocambolesca di evasioni e nuove catture, ebbe venticinque anni di carcere, mentre il suo luogotenente, Ferrante Madoni, ne ebbe ventinove. Entrambi, come buona parte degli altri componenti della banda, erano ex partigiani della brigata Cento Croci, che si era battuta eroicamente contro i nazifascisti. Il Tullio invece, anch'egli ex partigiano nelle brigate Vanni e Muccini, venne condannato a 15 anni di carcere quando, dopo una serie di rapine, fu catturato in Lunigiana, dove era sconfinato. La sua banda prese complessivamente altri 165 anni. Sia il Manzo che il Tullio, pur ammettendo di aver compiuto diverse rapine, per molte altre esclusero la propria responsabilità, sicché non è escluso che molti fatti siano stati commessi più o meno occasionalmente da altri. In particolare molti dei crimini attribuiti al Manzo potrebbero in realtà essere stati opera di una banda composta da 51 persone (di provenienza locale ma anche genovese ed emiliana) operante su un territorio che aveva come epicentro Varese Ligure, che fu sgominata dai carabinieri nel 1948.
Vale la pena di ricordare ancora tre personaggi che col Bracco hanno dei punti di contatto. Il primo è Ottorino Schiasselloni, vulgo «Pinzo». Personaggio assai discusso, esaltato come eroe resistenziale da alcuni e dipinto da altri come un delinquente senza scrupoli, che avrebbe approfittato della propria appartenenza alle brigate partigiane per coprire un'attività banditesca. Quello che è certo è che il Pinzo aveva una mira infallibile e la adoperò per commettere almeno uno dei dieci omicidi contestatigli, come accertò la sentenza del Tribunale di Torino che nel 1948 lo condannò a tredici anni di carcere.
Il secondo è il napoletano Giuseppe La Marca. Questi aveva già sostenuto con notevoli risultati la propria carriera criminale nella città d'origine, ma si era visto costretto a cambiare aria a seguito di alcune disavventure. Trasferitosi a La Spezia insieme ad una bruna assai vistosa, vi passò qualche mese facendo la bella vita, intenzionato a trovarsi uno
spazio operativo sul Bracco, che gli appariva congeniale alle nuove attività che intendeva intraprendere. Fu tuttavia arrestato, prima di poter passare all'azione, pare a causa del tradimento della moglie, la quale non avrebbe gradito la presenza al suo fianco della bella mora che lo aveva accompagnato.
In ultimo, ricordiamo un delinquente, di nome Primo Cerri, detto «Pisa» per via della città dove ebbe nascita. Costui, dopo aver tenuto una vita da fuorilegge fino ai tempi della guerra, alla fine di questa - in qualche modo rinato a vita civile - si era sposato con una ragazza di buona famiglia di La Spezia. Dopo pochi mesi, tuttavia, abbandonò la moglie e commise una serie di crimini spietati, sul Bracco e in altre località di quel territorio, sempre con lo stesso modus operandi: chiedeva ad un taxista di essere trasportato fuori città e poi lo depredava, uccidendo senza alcuna remora chiunque mostrasse anche il minimo cenno di resistenza. In queste imprese è aiutato da un compare, di nome Remo Salvini. Occasionalmente è accompagnato anche da donne che si alternano al suo fianco. In poco più di un mese vengono aggrediti sei autisti, due dei quali vengono uccisi. La polizia però ormai lo ha identificato e lo cerca. Il due settembre 1946 la sua auto incappa in un posto di blocco: viene catturato insieme al suo socio. Come si sia giunti alla cattura non è chiaro: la dinamica degli eventi fa supporre che ci sia stata una soffiata, probabilmente di una delle tante donne del Pisa. Anche una serie di altri personaggi di contorno vengono successivamente arrestati, e nel novembre 1949 si arriva finalmente al processo davanti alla Corte d'Assise di La Spezia: il 12 novembre Cerri viene condannato all'ergastolo e il Salvini a 26 anni. Un terzo complice, Enzo Vincenzi, forse in realtà già ucciso dal Pisa, viene condannato in contumacia a 24 anni.
Nell'Aprile 1951 un terzetto composto di due uomini ed una donna tenta di ripetere le gesta del Pisa, accordandosi con un autista genovese perché li porti in Versilia. Giunti in località Tre Pali, sul Bracco, lo rapinano e gli sparano, per fortuna senza ucciderlo, dopo avergli retoricamente annunciato che «La banda del Bracco vive ancora». Dopo aver tentato di rivendere il taxi a Viareggio, i tre criminali (Salvatore Lazzarini di Viareggio, Renzo Brusarocco e Eufemia Zorzo di Vicenza) verranno arrestati nel livornese.
L'ultima uccisione avvenuta sul Bracco è del 1950: un francese, di nome Martin Durban, di ritorno da un pellegrinaggio a Roma insieme alla moglie e ad un sacerdote, avendo reagito al tentativo di rapina, venne ammazzato. Gli assassini, due fratelli di nome Rossi, furono poi condannati a ventotto e ventitrè anni.
(2 - fine)
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