Quelle idee stracotte del Cannavacciuolo Bistrot

A Novara il locale del celebre chef. La sua cucina? Da televisione, con piatti bene eseguiti ma senza emozioni

Camillo LangoneNovara è un esempio da seguire. Quasi tutte le città italiane possiedono un teatro all'italiana, una di quelle magnifiche strutture costruite intorno a sale a ferro di cavallo con palchi e stucchi, velluti e dorature. Siccome non siamo più nell'800 molti di questi teatri languono ai margini della vita cittadina di cui un tempo erano il palcoscenico principale, aggrappati a sovvenzioni pubbliche sempre più ridotte, considerati alla stregua di vecchi dinosauri sopravvissuti. L'Incontentabile conosce bene il triste caso del parmigiano Regio, teatro di glorioso passato, modesto presente e incerto futuro, pressoché inaccessibile se non nelle poche sere di spettacolo. Sebbene sia stato inaugurato da Toscanini e abbia visto l'esordio di Muti, il Coccia di Novara non è mondialmente illustre, non rievoca immediatamente leggende come il solo nome del Regio fa con Maria Luigia e Giuseppe Verdi: eppure grazie ad amministratori pubblici più illuminati del grillino Pizzarotti oggi si è risvegliato tornando a essere un polo di attrazione. L'idea è semplice a dirsi anche se magari (vista la lunghezza dei lavori di ristrutturazione) complicata a farsi: incastonare nel corpo del teatro il luccicante locale di un cuoco famoso ossia Antonino Cannavacciuolo, chef televisivo e responsabile dei fornelli di Villa Crespi, sul vicino lago d'Orta, uno dei più bei ristoranti italiani. In questo modo, per la prima volta, Novara è diventata una meta: fino a ieri ci si veniva solo per lavoro, non certo in gita, nonostante che l'arditissima cupola di San Gaudenzio, alta 121 metri e tutta in mattoni, non abbia eguali al mondo. Il cibo tira molto più dell'architettura e ci voleva Cannavacciuolo per portar gente in quella che pur essendo la seconda città del Piemonte non ha mai nemmeno sognato di competere con Alba e le sue Langhe né con Asti e il suo Monferrato. Al piano terra c'è il caffé, al primo piano il ristorante che viene giustamente definito bistrot per via dei tavolini piccoli e dei prezzi inferiori a quelli della casa madre di Orta San Giulio (relativamente inferiori: antipasti e primi costano in media 15 euri, i secondi anche 24 come nel caso del filetto di manzo in crosta di pane e salsa al Nebbiolo). L'architetto-arredatore non passerà alla storia come l'Antonelli che ha progettato San Gaudenzio (e a Torino la Mole Antonelliana) anche se come l'Antonelli ha anteposto l'aspetto alla funzione: l'ambiente è bello però terribilmente rumoroso, le tende sono scenografiche però così oscuranti da ostacolare la lettura della carta. Certo, la domenica a pranzo il locale è pieno, certo, negli edifici storici gli interventi di correzione acustica sono complicati, e si potrebbe andare avanti a lungo con attenuanti e giustificazioni: ma una soluzione affinché i clienti non escano assordati va trovata. E il problema della luce? Nell'attesa che mettano lampadine più potenti ci si ricordi di imparare ad attivare la funzione torcia dei telefonini. Il bere. Appena seduti il cameriere viene a proporre bollicine e l'Incontentabile già si innervosisce per la parola troppa inflazionata e per la cosa troppo manipolata (parlando di simili pozioni Mario Soldati ebbe a dichiarare: «Lo champagne non è quasi vino. È un prodotto calcolatissimo»). Aprendo la carta si evince che volevano farci bere Prosecco o Franciacorta o appunto Champagne: ma non siamo in Piemonte? Forse il Gavi si è estinto? La salvezza si trova nella sezione cocktail: ricordandosi che proprio a Novara è nato il bitter Campari l'aperitivo diventa un Milano-Torino (bitter più vermouth), perfettamente eseguito e servito. Ovviamente quando si passa alla pagina dei rossi le bottiglie piemontesi primeggiano e ovviamente si sceglie il Piemonte settentrionale ossia la Vespolina e poi il Sizzano, entrambi di Valle Roncati. Il mangiare. L'amico lettore si domanderà come mai l'argomento centrale della rubrica stavolta è messo in fondo, molto in fondo, e forse ha già qualche sospetto. L'Incontentabile non vorrebbe rompere le uova nel paniere novarese, non vorrebbe che il giudizio sull'idea di inserire un ristorante moderno in un teatro antico (molto positivo) si confondesse col giudizio sulla realtà del ristorante inserito (un po' meno positivo). Quella di Cannavacciuolo è una cucina da televisione e da ufficio stampa, basata su idee stracotte come il connubio Nord e Sud a cui si devono gli agnolotti del plin con ragù napoletano, su frasi fatte del genere «tra innovazione e tradizione», su trombonaggini tipo la «sinfonia di sorprendenti piaceri per il palato». In contraddizione con l'essere grande e grosso, panciuto e barbuto oltre che ostentante virili, minacciosi coltelli, Cannavacciuolo non fa che abusare della femminea parola «emozioni»: sul sito, nel titolo del nuovo libro pubblicato addirittura da Einaudi, ovunque.

Un concetto che non trova riscontro nemmeno nei piatti, tutti ben eseguiti (salvo l'anziano polpo alla luciana) però spesso talmente delicati da risultare flebili, di fronte ai quali non si può che rimanere impassibili.

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