Quelle mosse da Volpe del deserto per vincere la sfida con Al Qaida

Gli 007: fa il doppio gioco per contenere l’Islam integralista e rimanere al potere

Gian Marco Chiocci

da Roma

Ma a che gioco gioca la Volpe del deserto? Perché segretamente rassicura gli «amici» occidentali sul suo impegno contro il terrorismo quando poi per le vie ufficiali incoraggia la rivolta organizzata da Al Qaida in tandem con imam estremisti e col partito dei Fratelli musulmani? La risposta è semplice e cervellotica al contempo. Ad armare l’ennesimo exploit del leader libico Muammar Gheddafi vi sarebbe una sola, raffinatissima, strategia politica: quella tesa a individuare, scoprire, stanare, gli oppositori interni al regime legati al network qaedista di Al Zarqawi. La partita è tutta qui. C’entrano poco le minacce a Roma, la stucchevole litania delle richieste d’indennizzo per i danni di guerra, la rabbia per la maglietta del ministro Calderoli. Stando a una fitta corrispondenza d’intelligence, il Colonnello avrebbe dato prima ordine di alimentare la protesta chiudendo un occhio su ciò che più Servizi europei gli avevano dettagliatamente preannunciato, dopodiché ha messo in atto una prova di forza sfociata in un bagno di sangue davanti il nostro consolato a Bengasi. Si dirà: a Gheddafi però la situazione è sfuggita di mano tanto che è poi stato costretto a silurare il ministro dell’Interno. Non è così, stando alle analisi degli 007. Il leader libico, infatti, con una difesa armata sproporzionata all’offesa urlata, da un lato ha ribadito che per parecchio tempo ancora con lui bisognerà fare i conti, e dall’altro se l’è presa con il responsabile dell’ordine pubblico solo perché - contravvenendo a precise disposizioni - dopo i morti non è stato in grado di sedare la rivolta arrestando i promotori della stessa. Per nascondere ciò che sta diventando un problema interno molto serio (il dilagare del pensiero integralista) da consumato baro qual è, Gheddafi ha pescato dal mazzo la solita carta della contrapposizione esterna (il passato coloniale) cercando di contenere i rigurgiti più radicali. E in questa direzione va interpretata la decisione di scarcerare una novantina di appartenenti al gruppo dei Fratelli musulmani, rappresentanza politica dell’Islam più integralista, nonostante questa sigla fosse stata ripetutamente definita «di matrice terroristica», e quindi sgradita al governo, dal papà della rivoluzione verde.
Se un tempo il leader libico aveva il controllo pressoché totale del territorio, oggi non sa come stroncare le velleità estremiste nella Cirenaica, specialmente nella città di Derna, dove si sarebbero sedimentate quelle cellule attive che hanno forgiato fra i 600 e i 700 jihadisti spediti a combattere in Irak. Sempre da qui si sarebbero mossi gli ideatori della marcia su Bengasi collegati al gruppo d’opposizione al regime denominato «Nfsl» (National Front for the salvation of Libya). E in questo fazzoletto di sabbia da almeno due anni gli emissari di Al Zarqawi avrebbero piantato le tende alla ricerca di terreno fertile per sconfessare l’operazione di maquillage (indennizzo per gli attentati agli aerei a Lockerbie e in Niger, porte aperte all’Agenzia atomica internazionale, oltre 200 terroristi in galera) a cui si è pubblicamente sottoposto il Colonnello dopo l’11 settembre.
Bastano, allora, due vignette e un assalto al consolato del Paese fra i maggiori partner commerciali della Libia a far cambiare idea a quella vecchia volpe di Gheddafi? No che non bastano. La realtà, dunque, è che il Colonnello ha paura. Paura di perdere il potere e di perdere la faccia dopo aver garantito all’Occidente una lotta durissima al terrorismo.

Quel poco di movimentismo armato che fino a pochi anni fa ancora resisteva nel «Gmil» (Gruppo militante islamico libico), nei partigiani di Dio seguaci di «Ansar Allah», nel «Movimento dei martiri islamici» e nelle «kata’ib» armate, col tempo si è riformato e sotto traccia si è dato una nuova, comune, identità. Che ha la faccia pulita dei Fratelli musulmani e l’interfaccia occulto dei luogotenenti di Osama in Libia.
gianmarco.chiocci@ilgiornale.it

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