Quelle opere titaniche costruite in Etiopia dalle imprese italiane

Dal 1957 Salini Impregilo realizza nel Paese infrastrutture. Oggi soprattutto grandi dighe

Marco Valle

C'è Africa e Africa. Anzi, vi sono tante Afriche, «una rete di complessità con modelli culturali, politici, religiosi profondamente diversi e contradditori». Lo ricordava, in suo intervento su Limes, il senatore Alfredo Mantica, già sottosegretario agli Esteri nei governi Berlusconi e profondo conoscitore del continente. Ma per pigrizia o ideologismo noi preferiamo vedere soltanto «un ammasso indistinto di numeri ed emozioni, gravato da povertà e malattie, a cui offrire modelli sociali riciclati e di breve termine; resta esclusa l'Africa fatta da giovani, di energie inespresse, di potenzialità enormi da sfruttare, di spazi immensi, di ricchezza di materie prime».

Mantica ha ragione. Lo conferma, una volta di più, la nuova stagione che sta vivendo il Corno d'Africa (una regione che per tanti motivi dovremmo ben conoscere...) e dintorni. Al netto delle continue dinamiche conflittuali a oggi, con l'eccezione della Somalia, quasi arginate , da oltre un decennio l'intera area è in piena fase espansiva: la crescita economica complessiva ha raggiunto il 5,8%; l'Etiopia (11 anni consecutivi di Pil in positivo e con tassi al 10%) è al primo posto seguita da Kenya, Tanzania, Ruanda e Uganda con stime tra il 7 e il 5%. Un vero e proprio boom, che ha attratto un enorme afflusso di investimenti e capitali esteri e suscitato formidabili appetiti politici e militari.

In primis, c'è Pechino che sta trasformando l'intera Africa orientale in una piattaforma dell'import-export cino-euro-africano. Una scelta strategica di lungo periodo: attraverso lo stretto di Bab al-Mandeb e il Mar Rosso scorre quasi tutto il traffico tra Europa e Asia (un interscambio pari a 700 miliardi di dollari), per l'economia cinese un passaggio vitale. Da qui gli investimenti per una serie di grandi progetti infrastrutturali (porti, strade e ferrovie) finalizzati a creare tra Addis Abeba, Gibuti, Nairobi, Mombasa, Lamu e Kampala un network logistico transafricano sinergico ai piani del «celeste impero».

Ma il denaro, come ricordava un film di successo, «non dorme mai» ed ecco allora la presenza di Turchia, Arabia Saudita, monarchie del Golfo e, con discrezione, Israele; una folla di attori tutti irresistibilmente attratti dai nuovi mercati etiopi e kenioti, dai giacimenti di gas e petrolio scoperti in Eritrea e Somalia e dalle risorse minerarie di Uganda e Sud Sudan. Un complicato risiko geopolitico ed economico in cui gli europei, in ordine sparso, stanno cercando di rientrare.

E l'Italia? Dopo una lunga amnesia, la politica nostrana sembra finalmente essersi ricordata delle perdute colonie e in particolare dell'antica Abissinia. Il viaggio di Giuseppe Conte lo scorso ottobre ad Addis Abeba primo premier europeo a incontrare il giovane primo ministro Abyi Ahmed dopo lo storico trattato di pace con l'Eritrea è un dato positivo (e, speriamo, non episodico). Per l'Etiopia siamo il secondo partner commerciale, primo fornitore e terzo cliente a livello europeo con un interscambio commerciale nel 2017 di 276 milioni di euro. Cifre importanti eppure ancora di molto inferiori alle reali potenzialità.

Fortunatamente il vuoto di iniziative governative è stato colmato dai soliti «capitani coraggiosi», dagli imprenditori italiani che, in perfetta solitudine, hanno continuato a investire e lavorare in aree sconosciute alla politica. È il caso di Salini Impregilo presente in Etiopia sin dal lontano 1957 dove ha realizzato strade, funivie, ospedali ed è tutt'ora impegnata nell'erezione di grandi dighe. Si tratta di opere indispensabili per completare l'elettrificazione del Paese ma, soprattutto, per trasformare l'Etiopia nel polmone energetico dell'Africa.

Un obiettivo già in parte raggiunto. Grazie alla dighe di Legadadi, Beles, Gibe I, Gibe II e Gibe III tutte costruite da Salini Impregilo il Paese esporta energia in Kenya, Sud Sudan e Gibuti, ma Addis Abeba mira in prospettiva ai ricchi mercati del Medio Oriente e dell'Europa. Un piano ambizioso basato sulla potenza dei fiumi (una capacità di 122 chilometri cubi di acqua annui) che scorrono sugli altopiani e su cui Addis Abeba ha investito 12 miliardi di euro (un terzo del Pil). Per diventare entro il 2025 la prima nazione africana «carbon free» e arrivare nel 2035 a quota 40mila MW, l'Etiopia ha affidato all'impresa italiana la costruzione della «Grand Ethiopian Renaissance Dam» sul Nilo Azzurro. Un'impresa titanica. Una volta ultimata sarà la diga più grande d'Africa. I numeri sono eccezionali: 1800 metri di lunghezza, 155 d'altezza, un bacino dal volume di 74mila milioni di metri cubi (e un nuovo lago di 1874 chilometri quadrati), due centrali idroelettriche con una potenza complessiva di 6000 MW e una produzione prevista di 15.000 GWh/ anno; a oggi le esportazioni d'energia prenotate garantiscono introiti annuali di 2 miliardi di euro.

Un lavoro enorme ma anche un rompicapo politico. Negli anni la gigantesca opera ha inquietato sudanesi ed egiziani, da sempre attentissimi alla gestione del Nilo. Una lunga crisi in cui più volte si è sfiorato come quando il governo cairota ha minacciato di bombardare i cantieri l'irreparabile. Per fortuna lo scorso giugno il nuovo premier etiope è riuscito, grazie alla mediazione saudita, a convincere il presidente egiziano Al Sisi per un accordo sulla cogestione dei flussi delle acque nilotiche assicurando l'intoccabilità della quota egiziana. Per Salini Impregilo la fine di un incubo. Lo sbarramento vale 3,47 miliardi di euro, offre lavoro (tra diretto e indotto) a ben 111.394 persone ed è il volano per le altre commesse del gruppo in Etiopia compresa la futura diga di Koysha.

Per Pietro Salini, amministratore delegato, una grande soddisfazione professionale: gli investimenti in Etiopia si confermano vincenti. Ma «l'africano», come lo chiamano i suoi collaboratori, non scorda il Belpaese.

In uno dei suoi rari interventi pubblici si augura «per il domani nuove opportunità non solo nel mondo ma anche in Italia, per far restare in questo Paese un po' del valore che oggi esportiamo ovunque. Mi auguro una classe politica che guardi al futuro per noi e per i nostri figli, con un nuovo progetto strategico infrastrutturale».

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