Quello strano razzismo a senso unico

Massimo Introvigne

Il rettore della moschea di Parigi, l'imam Dalil Boubakeur, è un uomo pieno di problemi. Presentato dal governo francese come «il rappresentante dell'islam in Francia», è regolarmente attaccato dagli imam delle periferie come infeudato a Chirac, ed è sospettato dai fondamentalisti di essere legato ai servizi segreti algerini. Non lo si è mai sentito criticare né il governo francese né un dittatore nordafricano.
Oggi Boubakeur cerca di riconquistare la credibilità perduta lanciando quella che nei toni e nei concetti - anche se non nella forma giuridica - è una vera e propria fatwa contro il calciatore italiano Marco Materazzi, cui nella finale mondiale l'idolo del calcio francese, il musulmano Zinedine Zidane, ritenendosi insultato, ha rifilato una vergognosa testata, finendo giustamente espulso. Secondo il comunicato dell'imam Boubakeur, «tutti i musulmani di Francia sono solidali con Zidane e preoccupati. Nella prova, la Moschea di Parigi offre il suo sostegno fraterno e la sua ammirazione affettuosa a Zidane, degno figlio della comunità musulmana». Nelle interviste, Boubakeur ha parlato, con riferimento ai pretesi insulti di Materazzi, di «cancrena razzista che deve essere estirpata».
Come ha rilevato il quotidiano Le Figaro, Boubakeur non ha parlato a titolo personale né come tifoso di calcio e il comunicato della Moschea di Parigi «sposta il problema su un piano completamente diverso». Espone il malcapitato Materazzi, se non i calciatori italiani in genere, a reazioni che potrebbero non limitarsi alle semplici parole.
Come si sa, non è chiaro che cosa abbia detto Materazzi a Zidane. L'espressione «terrorista» è stata attribuita al nostro difensore dai tabloid inglesi. Materazzi nega e Zidane stesso non conferma. Se si tratta di insulti generici, è inutile che l'imam si ecciti. Diversi giocatori dell'eccellente nazionale turca - alcuni dei quali si professano devoti musulmani - hanno subito pesanti sanzioni per avere aggredito a insulti e calci i calciatori svizzeri che li avevano appena eliminati dai mondiali. E dal basket americano alla pallavolo lo scambio di ingiurie in campo è un'abitudine comune: deplorevole, certo, ma che non c'entra con gli imam e la religione.
Ma anche se Materazzi avesse veramente dato del «terrorista» a Zidane, ci sarebbero da fare due commenti. Il primo è che il «razzismo» non dovrebbe riguardare solo certe «categorie protette»: dire «italiano mafioso» non è meno razzista che dire «musulmano terrorista». Schiere di calciatori italiani possono attestare di essere stati insultati, anche in questo mondiale, come «mafiosi». Non hanno reagito a testate. Il secondo commento è che l'islam, anche quello «moderato», ha un problema dottrinale da risolvere. La civiltà giuridica occidentale ha imparato a distinguere la violenza verbale da quella fisica. Se uno mi dice una parolaccia e io lo riempio di botte mandandolo all'ospedale, avrò forse l'attenuante della provocazione ma sarò io ad andare in prigione. Come si è visto nel caso delle vignette danesi, dai meandri del diritto islamico emergono invece risposte diverse. Se si insulta un musulmano in quanto tale, la violenza e perfino l'assassinio sono considerati meno gravi della provocazione verbale o scritta, anzi sono doverosi.

È di questi cascami di un diritto d'altri tempi che l'islam deve trovare la forza di liberarsi, proprio se vuole che la giusta distinzione fra i molti musulmani non violenti e i pochi terroristi diventi parte dell'opinione comune.

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