Probabilmente, anche se aveva 82 anni se nè andato da «arrabbiato», come aveva vissuto e soprattutto come aveva scritto. Alan Sillitoe, bellesempio di autore operaio, era nato a Nottingham nel 1928 ed è morto ieri a Londra. Soltanto lanno scorso in Italia era stata tradotta la sua raccolta di racconti che, avendo nel titolo la parola magica «solitudine», si era avvalsa della prefazione di Paolo Giordano, quello dei «numeri primi». La solitudine del maratoneta (minimum fax), tuttavia, risale al 59, ed è il titolo della sua narrazione più compatta, che descrive leroismo da outsider di Colin Smith il quale, rinchiuso in riformatorio, accetta sì di partecipare a una gara podistica sapendo che la vittoria gli ridarebbe la libertà, però sul più bello, quasi sul filo di lana, si fa da parte, rifiuta, con un gesto clamoroso, di sottostare a un ordine avvertito come una nuova imposizione.
In fondo Adam Sillitoe era un Colin Smith, nonostante il Times lavesse definito «il più grande e saggio scrittore inglese vivente». Un figlio della working class non sapeva che farsene di uninvestitura così altisonante. Anche perché la sua giovinezza, fra gli studi lasciati a soli 14 anni per entrare in fabbrica, la guerra nella Royal Air Force, limpiego di operatore radiofonico in trasferta in Malesia, la tubercolosi, aveva lasciato in eredità, alluomo maturo, una naturale idiosincrasia per le etichette e le medaglie, anche quelle di carta.
Il socialista Sillitoe non amava, e forse temeva un po, il successo. Perché il successo è attribuito dalle masse. E le masse, per uno come lui, dovrebbero impegnarsi a fare ben altro.
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