Ludovico Festa
È tempo di Fiat nella saggistica nazionale. È da poco uscito il libro di Giuseppe Berta - «La Fiat dopo la Fiat, storia di una crisi, 2000-2005», Mondadori, 2006, euro 17 - sugli ultimi anni della società automobilistica torinese ed è arrivato in libreria in questi giorni «Fiat, i segreti di un'epoca», una sorta di memorie di Giorgio Garuzzo (Fazi editore, 2006, euro 23).
Lo storico Berta centra la sua analisi sulle cause della crisi: non solo errori di strategia industriale, che pure vi sono stati, ma contraddizioni profonde nella governance dell'impresa con scarsa trasparenza tra proprietà, management e gestione. Berta insiste sul fatto che pur avendo Sergio Marchionne compiuto dei miracoli e sfruttato le consistenti potenzialità dell'impresa, i problemi di governance incombono sulla società controllata dalla famiglia Agnelli. Per competere nel mondo non basta avere grandi qualità manifatturiere che tradizionalmente non mancano a maestranze e quadri Fiat: bisogna anche avere strategie di ricerca e finanziarie che mal si connettono a gestioni più attente al potere.
Le valutazioni di Berta ben s'intrecciano con le memorie di quello che fu l'ultimo direttore generale della società torinese, Giorgio Garuzzo, dimessosi nel 1996. Di cultura olivettiana, Garuzzo arrivò in Fiat negli anni Settanta al seguito di Carlo De Benedetti. Così bravo da resistere alle dimissioni del suo protettore, che restò in Corso Marconi poco più di cento giorni, Garuzzo sopravvisse anche alla caduta, alla fine degli anni Ottanta, di Vittorio Ghidella, il geniale manager industriale che era troppo amico di Umberto Agnelli e troppo nemico di Cesare Romiti. Compì alcuni miracoli sia all'Iveco sia alla New Holland, ma finì maciullato dallo scontro tra Romiti e Umberto Agnelli, e in parte tra Gianni ed Enrico Cuccia, che s'intrecciò alle torbide vicende tangentopoliane di rito torinese, ancora più ambigue ed eterodirette di quelle milanesi: nel capoluogo lombardo s'intendeva smantellare tutto, dal Psi all'Eni, da Raul Gardini a Salvatore Ligresti, e quindi non si badava tanto alle «differenze». Che invece a Torino hanno pesato non poco.
Le memorie garuzziane sono interessanti non solo per la quantità di argomentazioni tecniche, che portano molte fascine al fuoco di Ghidella e di coloro che sostengono che Romiti (soprattutto per colpa di Paolo Cantarella, secondo Garuzzo) alla fine degli anni Ottanta sbagliò strategia industriale facendo correre molti rischi all'impresa torinese, ma sono interessanti soprattutto per la parte finale, shakespeariana, dello scontro finale con Romiti, descritto come una persona che aveva perso completamente la testa e governava solo con la forza.
Non tutte le considerazioni garuzziane paiono convincenti: talvolta essere troppo vicini ai fatti non consente una visione complessiva adeguata. Ma certo materiale per sostenere la tesi di Berta sull'inadeguatezza strutturale della governance Fiat, se ne trova a bizzeffe in queste memorie.
Dopo l'uscita del libro di Berta, l'ottima giornalista economica del Corriere della Sera, non particolarmente critica con il Lingotto, Raffaela Polato ha scritto sul suo giornale che Berta se avesse aspettato qualche settimana, di fronte ai trionfi di Marchionne non avrebbe scritto un saggio che pone qualche interrogativo di troppo sui problemi futuri del gruppo torinese. Berta, che pure sulla Stampa non manca di lodare il nuovo corso marchionesco, ha spiegato alla Polato che nel suo libro ha il passo dello storico che guarda alle questioni strutturali non del giornalista che segue i corsi di Borsa.
La prefazione al libro di Garuzzo è di Alan Friedman, giornalista che aveva creato molto rumore alla fine degli anni Ottanta per il libro «Tutto in famiglia» (Longanesi, 1989), poco riverente verso gli Agnelli: in quegli anni corse la leggenda che Corso Marconi avesse comprato tutte le copie del libro per evitare che le critiche si diffondessero. Niente più che leggende. Comunque il clima era quello.
In attesa che decolli quella nuova governance più moderna di cui la Fiat ha bisogno.
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